Bertrand domanda..., Discussione ripristinata da RubeusHagrid*

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view post Posted on 16/8/2016, 11:58
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view post Posted on 25/9/2016, 09:14
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Lettori , vi avviso ,

i fatti qui narrati potrebbero essere veri .










////////////////////////////////////////////////////////////////////////







Postai questo racconto il

14 Febbraio 2005


nel topic Questioni di sfumature a ufologia.net , forum estinto e topic disintegrato ...

ma per fortuna salvato ,,,,posterò poi gli aggiornamenti in blu nel racconto con dozzine di note e link e almeno100-200 foto ,







1982 Città di Bologna



Una sera, durante una ronda d’armi, in stile Kubrik,
che frequentavo in quel periodo,
ci capitò di trovarci in Vicolo degli Ariosti.

E’ un posto molto particolare, una tradizione precisa vuole che la Città di
Bologna
sia stata fondata proprio lì,
poco distante infatti ci sono le vestigia delle antiche mura di selenite, le
prime edificate
per cingere il borgo e proprio nel vicolo doveva essere l’ingresso dell’
immenso tempio di Giove
che fu distrutto da un terremoto nel 11 a. c.
Le cronache narrano che la selenite del tetto era visibile a decine di
chilometri,
e ora le macerie formano quella improbabile collina che i bolognesi ben
conoscono
vicino al Museo Medievale.

Era probabile che la nostra indomita ronda finisse nel cinema
che allora era addossato al vicolo,
e così mentre adocchiavo annoiato le scritte sui muri dei soliti idioti,
do uno sguardo proprio in fondo al vicolo, nella parte più buia, e mi accorgo
che,
dipinto sul muro, era presente un Simbolo che non avevo mai visto.



L’ autore scenografo era stato proprio bravo. Per un gioco di luci ombre e
prospettiva
più che vedere, si era costretti a intuire la presenza del Simbolo:
una barra orizzontale, con due barre verticali poggiate sopra quasi ai
vertici,
e una barra verticale in mezzo, staccata dalla base.
Sempre per il gioco di luci, avvicinandosi il manufatto sembrava illuminarsi,
ma di sicuro si poteva coglierne un aspetto: era stato composto con una
Matrice,
gli angoli e le linee erano impeccabili, e la vernice appariva di una
compattezza
totalmente insolita.
Per l’occasione ero attrezzato con armi bianche di ogni tipo, ma mi accorsi di
provare
qualcosa molto simile al disagio.
Allontanandomi, mi resi conto che avevo già deciso di indagare.


Plutarco, Vita di Romolo, XI; trad. M. Serio
Romolo, seppellito suo fratello nella Remoria [la rupe scelta da Remo per il rito
augurale], assieme a quelli che li avevano allevati [Faustolo e Acca Larenzia], fondò la
città; a tale scopo aveva fatto venire dalla Tirrenia [il paese degli etruschi] degli esperti
che gli spiegassero la corretta procedura da eseguire. […] Romolo dunque per prima
cosa scavò una fossa circolare nella zona su cui ora sorge il Comizio, e in essa depose
le primizie di tutto ciò che era utile secondo consuetudine e necessario secondo natura.
Quindi ciascuno vi gettò dentro un po’ di terra del proprio paese natale, e mescolarono
assieme il tutto. Questa fossa è indicata con il nome di mundus, lo stesso con cui
designano il cielo. Poi finalmente venne tracciato il perimetro delle mura, considerando
la fossa come centro della futura città. Il fondatore fissò all’aratro un vomere di bronzo,
vi aggiogò un bue e una vacca, quindi li guidò lui stesso, tracciando un profondo solco
lungo il perimetro stabilito; quanti lo seguivano avevano poi il compito di rivoltare
all’interno le zolle sollevate dall’aratro, badando che neanche una rimanesse all’esterno
del solco. Così tracciarono il perimetro delle mura, chiamato con forma sincopata
pomerium, vale a dire «dietro, o dopo, le mura» [post murum]; là dove intendevano
collocare una porta, estraevano dalla terra il vomere e sollevavano l’aratro in modo da
lasciare un intervallo nel solco. Considerano pertanto sacro e inviolabile l’intero
perimetro delle mura, eccezion fatta per le porte; considerando sacre e inviolabili anche
le porte, infatti, non sarebbe stato possibile far entrare o uscire le cose necessarie, ma
impure, senza commettere sacrilegio.
(Plutarco, Vita di Romolo XI; trad. M. Serìo)



In quel periodo mi vedevo spesso con Mario Pincherle, ad Ancona.
Nella sua casa di Via Fornetto 107, a due passi dal celebre crocicchio delle
streghe,
( dove Michel de Nostredame salutò il frate Felice Peretti nel futuro Papa
SistoV )
il grande archeologo discuteva con me la sua Teoria degli Archetipi:
in un’organizzazione antropica, una città ad esempio,
i 22 Archetipi fondatori dell’universo, che i Cabalisti del medioevo
riformularono con il nome di Tarocchi,
si materializzano spontaneamente, a priori dalla intenzioni degli architetti,
e seguendo questa intuizione, ora giocavo a trovare le Carte dei Tarocchi
nella planimetria felsinea,
rintracciando Bet, ב


La Papessa, la Grande Madre, nella finestra sull’ipogeo
delle acque
vicino Porta Lame






, Nun, נ

La Temperanza, Proteo, il Fauno gigantesco nell’alcova
orfica
di Strada Maggiore,






Scin, ש


Il Matto, il moto rettilineo, l’ipnosi, nella
celebre finestra
che guarda il naviglio di Via Piella.







Mi addentravo nelle strade come un veggente turista
( già allora gli amici mi dicevano che sembravo Jack in Shining )
diventando postino, pubblicista, maniaco, e professore
riuscivo a introdurmi dove volevo,
Bologna è una città fantastica, piena di giardini segreti
e vestigia archeologiche.

Dando la caccia ai 22 Arcani Maggiori,
ritrovati nella città dentro le mura e nella Certosa Monumentale, il Cimitero
di Bologna,
in poco tempo mi resi conto che erano apparse altre Matrici.

Vicino Via Galliera, in Via Farini, vicino Piazza Santo Stefano.
4 in tutto.

Mefisto mi diceva che ce n’erano altre.
Iniziò una frenetica ricerca negli Archivi Comunali sulla storia di quei punti
particolari,
andando indietro circa 5 secoli con le cronache e ancora oltre con i
documenti.

Neanche la scoperta di un nuovo romanzo di Hoffmann mi avrebbe coinvolto
così,
non poteva essere una coincidenza, tutti e 3 i luoghi dove avevo scoperto
le altre Matrici erano legati a fatti e persone riconducibili a processi di
stregoneria, ( questa l' anticipo subito, la stregoneria non c' entra una sega .... )
e alle notizie su una presunta Società Segreta legata al culto di Mithra: la
prima data in cui compariva era il 1100,
quando fu fondata l’Università, e nei secoli si era estinta o mutata in
corporazione,

lo studioso Giulio Camillo Delminio la citava in un commento al Libro del
Comando
di Cornelius Agrippa senza identificarla,

una Vachetta de li Giustiziati del 1500 la associava al Collegio Judicum
Mutine
dello Statuta Civitatis del 1270, ma all’inizio del 1800 gli inquirenti la
conoscevano
con il nome de I Ribelli di Lucifero, forse in onore a Milton.


( Per Inquirenti intendo la Polizia Pontificia ; sto facendo una ricerca capillare su vari faldoni

de Atti riservati di Polizia . a Bologna, Archivio di stato , in particolare faldone 244 -1851/2 )




A distanza di anni mi ricordo ancora il loro Stemma,
una testa di morto con la bocca cucita su cui è poggiato un gallo.

Nessuna Araldica ne avrebbe ammesso l’esistenza.

Intanto stavo allargando le ricerche ad amici e studiosi, giornalisti e anche
investigatori,
nessuno ne sapeva niente.

Passavo le settimane tra biblioteche e librerie antiquarie di mezza Italia
a cercare le tracce che si inseguivano in libri spesso inaccessibili.

Tra l’altro una scuola di pensiero vuole che le sorti e i libri legati alla
magia,
perché abbiano potere debbano essere rubati.

Funziona. E’ un metodo sicuro per finire nei guai.

Stavo infatti seguendo una traccia: in un testo alchemico che sono riuscito a
sottrarre
da una collezione privata, si racconta di una leggenda bolognese,
su come un Ordine Segreto si riunisse in un palazzo dell’attuale Via
Galliera,
per poi percorrere un tunnel sotterraneo che portava direttamente
alla Certosa Monumentale.

In realtà ne avevo già sentito parlare, sembra che i partigiani lo
utilizzassero
durante l’ultima guerra per gli spostamenti e come deposito d’armi.
Chi ha visitato l’immensa galleria sotterranea del torrente Avesella,
che passa proprio sotto le 2 Torri, ha potuto accorgersi che sotto Bologna
esiste un’altra città, con centinaia di passaggi , piccoli ipogei e cortili
e migliaia di cunicoli che fungevano da servizi e da comunicazione.
Con tocchi di noir gotico,
ad un certo punto della galleria, tra le muffe delle pietre antiche,
e i ratti che attraversano i muri , compare una scalinata al cui vertice
è una normale porta d’appartamento con maniglia.


QUI LE FOTO

www.ufoforum.it/viewtopic.php?f=45&t=17822




La guida ci descrisse un passaggio in comunicazione, 7 metri più sopra,
con un locale di Via dell’Inferno. ( Un caso. )

Sapendo benissimo che non mi sarei mai più divertito così tanto,
neanche in un film di Corman,
decisi di fare un’ incursione nella Certosa Monumentale.

Di notte, Corsia dello Stillicidio, riuscii a calarmi dentro quella cripta
sotterranea,



vicino all’attuale obitorio, che so essere la porta per l’ingresso del secondo
sotterraneo
della Certosa, quello abbandonato da secoli,
e con una soddisfazione molto simile al terrore vi trovai la 5° Matrice.

Le indicazioni del libro erano precise: la Setta percorreva il passaggio
per raggiungere la tomba di un Magister Doctissime morto nell’Alto Medioevo.

Le spoglie del corpo erano state traslate e nello Stemma c’erano
gli indizi per ritrovarne il loculo


Gasparini_arch_548_low[/SPOILER]




Nel frattempo a Bologna la Teoria del Simbolo era impazzita,
ne stavano apparendo a decine dentro la città antica,
tracciati e dipinti con i mezzi più occasionali sui muri,
sulle bacheche dei giornali, sulle porte, spesso in gruppi
eseguiti da mani differenti.
Notai che più ci si allontanava dal centro storico
E più si diradavano.

Le Madri, in tutto, erano 5.

Loro, sempre presenti in un’enigmatica indifferenza
dei passanti,
erano in silenzio.

Io, Faust ammalato tra vecchi libri,
indagavo sui Simboli che calavano in città come
Carte da Briscola.

Era il periodo del mitico Q. BO., una discoteca dove facevo il buttafuori, con
scarsa efficacia,
quello era il punto ideale per raccogliere tutte le voci e le tendenze.
Almeno 3 gruppi di bande Dark, Punk, Rock, e altri scoppiati del coro,
mi dicevano la loro, senza enfasi, interpretandolo un semplice sistema di
riconoscimento
dei luoghi dove incontrarsi, un Logo per marcare il territorio,
e tutti mi davano una versione differente su come era nato.
Mi ricordo che con 2 ragazzi mi feci un dovere di portarli ad una delle
Madri,
raccontando ( con cautela ) qualche antefatto.
Buio più assoluto, mai visto e mai fatto,
in compenso mi promisero una loro indagine interna.
Da allora, in tutti i gruppi Dark di quel periodo c’era la sicurezza
che io fossi un Negromante.
‘’ State alla larga da Jack, oltre che pazzo
gioca con i morti ‘’

Ad un certo punto pensai alla celebre Setta Satanica del Bambini,
di cui si parla va molto,
ma gli amici inquirenti lo escludevano.

Nel mezzo del cammino, un colpo di scena.
Fui contattato da un noto esponente politico di un partito:
‘’ Carissimo, Alfa mi ha parlato del suo interessamento per una storia che non
ha
niente di misterioso, vede, la Matrice di cui Lei tanto sta chiedendo
è solo il simbolo stilizzato del nostro partito. Eccola qua ! ‘’

Ero sbalordito e senza parole, l’idiota che mi stava parlando doveva essere
stato imbeccato da qualcuno, nel mostrarmi uno stampo, che tra l’altro,
anche se leggermente, era diverso dall’originale,
voleva saper tutto sulle mie ricerche.

E così, a distanza di anni, confidai a un telefono la notizia che sapevo
certo
l’interesse di 2 Logge Massoniche per la questione,
ciò mi procurò un primo risultato:
259/95 R.G.N.R. art. 407 c. p. Profanazione di sepolcro.
Un bel decreto di perquisizione domiciliare.

( E’ una cosa che non ho mai capito, forse visto il mio passato di studente
teatrale,
Madama chi stava cercando, Yorick ? )

Dopo quasi 15 anni di ricerche riuscii a trovare gli indizi presenti
nello Stemma dei Ribelli,
il loculo si trova vicino alla Chiesa,
nella parte più antica della Certosa.

Ma intanto la danza macabra stava continuando a suonare,
gruppi che mi comparivano attribuendosi l’origine certa,
gruppi in opposizione che modificavano il Simbolo:
ci ha pensato Saturno,
altri anni sono passati e squadre attrezzate di spietati imbianchini
hanno provveduto a ricoprire tutte le Madri con intonaci d’autore.


Chi erano i Ribelli ?

Li vedevo attraversare il tempo
come un Drago di pietra.

I secoli lo colpivano mutandolo
in un edificio in rovina.

La Setta aveva deciso di lasciare una traccia nelle tombe degli Adepti,
giravo la Certosa alla ricerca di tutte
le forme del Serpente,






che avrebbe fatto da guardiano ai nomi delle famiglie
seguaci dell’Ordine da venti o trenta generazioni.

Una Fenice rampante su campo armellino
le ali afferranti due martelli che si affrontano.

Ne ricordo la superba potenza,
una giovane Lince tra i ceppi anneriti dei tumuli,






E le Idre e i Grifoni sulle metope dei portici
sembravano disegnare un percorso,
sempre distante dalle Squadre e i Compassi Massonici,






che portava al Recinto dei Cappuccini
vicino la Loggia a Levante.

Poco distante, alla fine
era il giusto traghettatore delle anime,

Un Aion Mithraico dal corpo di Leone,
l’Aspide che lo avvinghiava aveva 12 bocche,
tutte guardanti la stessa direzione,






Come una muta processione
Lentamente il silenzio si posava
Su queste tracce sempre più lontane
E negli anni le mani esperte dei ladri
Le hanno cancellate per sempre.


A distanza di molto tempo
Sono ritornato nei luoghi dove so essere le Matrici,
e ho scrostato l’intonaco,
i Simboli sono ancora lì,
sembrano Diavoli in sonno











OGNI ATTO DI GIUSTIZIA


GENERA UN CRIMINE


LUCIFERO QUEL DIADEMA ROVENTE


E' IL RICORDO


DELLA TUA BELLEZZA


QUANDO ABITAVI LA LUNA


E IL TUO RESPIRO GENERAVA


LE MAREE


IL TUO CORPO SEPOLTO


DAGLI ASTRI


RISPLENDE NERO


E ABITA LA BOCCA DI DIO


COME UNA CORAZZA


VIENI


MADIEL


TUO FIGLIO VUOLE NASCERE

 
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view post Posted on 4/11/2016, 13:50
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Lo scrittore Angelo Cerchi , autore del libro




HP%20Lovecraft%20il%20Culto%20Segreto%20by%20Aradia%20Edizioni


www.aradia-edizioni.it/hp_lovecraft-culto-segreto.html


mi suggerisce un ' indagine nel celebre racconto di Lovecraft

https://it.wikipedia.org/wiki/Il_richiamo_di_Cthulhu

Infatti il sintagma formula




Ph ' nglui mglw nafh

Cthulhu R' lyeh wgah' nagl fhtagn



ha tutte le caratteristiche del semitico .


E Angelo Cerchi mi ha offerto anche una Chiave d' Argento per decriptare la formula



UNA SCULTURA CHE RAPPRESENTA CTHULHU







la precisa indicazione di Angelo Cerchi è che CTHTLHU sia legato a unì esecuzione capitale , a un supplizio .



PRE DECRIPTARE CTHLHU

è importante capire quali lettere siano le portanti , ovvero in Ebraico le RADICALI , le lettere che

costituiscono l' scheletro, l' ossatura del vocabolo

e individuare prefissi e suffissi .


Infatti C STA PER


כְּ


K(E) in ebraico : come , complemento di modo


e le radicali T L H

IN EBRAICO TAW LAMED HE


ת ל ה


formano il verbo , forma infinito , LITLOT

לִתְלוֺת



con il significato di sospendere , appendere .


appendere cosa ????????


Dobbiamo quindi dare un' occhiata ai verbi in Ebraico ...

da

www.biblistica.it/wordpress/?page_id=261



Forme

Valore

1a

qal

Semplice

2a

nifàl

Riflessivo o passivo

3a

pièl

Intensivo attivo

4a

puàl

Intensivo passivo

5a

hifìl

Causativo attivo

6a

hofàl

Causativo passivo

7a

hitpaèl

Riflessivo intensivo



Qui, per un esempio, prendiamo il paradigma il verbo קטל (qatàl):

Forme

Valore

Traduzione

1a

קטל (qatàl)

Semplice (qal, קל)

Uccise

2a

niqtàl (נקטל)

Riflessivo o passivo

Si uccise, fu ucciso

3a

qittèl (קטל)

Intensivo attivo

Uccise violentemente, massacrò

4a

quttàl (קטל)

Intensivo passivo

Fu ucciso violentemente, fu massacrato

5a

hiqtìl (הקטיל)

Causativo attivo

Fece uccidere

6a

hoqtàl (הקטל)

Causativo passivo

Fu fatto uccidere

7a

hithqattèl (התקטל)

Riflessivo intensivo

Si uccise violentemente

Così, ad esempio, hiqtìl (הקטיל) significa “fece uccidere”, e la sua forma si chiama hifìl.



In italiano esistono i tempi del verbo (presente, passato e futuro); in ebraico invece conta l’aspetto verbale ovvero la condizione dell’azione, che può essere completa o incompleta. “Il tempo com’è inteso in quasi tutte le lingue moderne non è lo stesso per la mentalità semitica. La cognizione del tempo di un’azione non è d’importanza capitale secondo la mentalità ebraica. Per una mente indogermanica è indispensabile collocare l’azione nella sua accentuatissima valutazione temporale. La condizione dell’azione intesa nella sua completezza o incompletezza era in genere sufficiente per i semiti e, in caso contrario, qualche termine dal significato temporale o storico avrebbe messo a fuoco il tempo”. – K. Yates, The Essentials of Biblical Hebrew, 1954, pag. 129.

Il perfetto esprime di per sé un’azione completa. In Gn 3:23, nella frase: “Dio il Signore mandò via l’uomo dal giardino d’Eden”, il verbo è al perfetto, indicando un’azione compiuta ovvero finita. Se l’azione non è termitata ovvero è incolpleta, il verbo ebraico è all’imperfetto. Così, in Gn 1:2, dove è detto che lo spirito di Dio “aleggiava sulla superficie delle acque”, il verbo è all’imperfetto, indicando che l’azione non era terminata. Siccome in ebraico la forma perfetta o compiuta è la sola che riguarda il passato, in essa sono comprese tutte le sfumature dei nostri tempi (passato e trapassato prossimo, passato e trapassato remoto). Nella frase “in principio Dio בָּרָא [barà] i cieli e la terra” (Gn 1:1), il verbo בָּרָא (barà) è al perfetto (azione terminata, completata) e può essere tradotto con l’italiano “ha creato”, “aveva creato”, “creò”, “ebbe creato”. Come si fa a tradurre con il giusto senso? Ovviamente tenendo conto del contesto. In questo caso la traduzione giusta è “aveva creato”, perché al v. 2, subito dopo, è detto che la terra הָיְתָה (haytàh; tempo perfetto), “divenne” informa e vuota. Ora, siccome Is 45:18 afferma che Dio non creò la terra così, è ovvio che ci si riferisce a due momenti diversi: Dio aveva creato la terra e poi la terra divenne informa e vuota. Sbaglia quindi NR che traduce: “Nel principio Dio creò i cieli e la terra. La terra era informe e vuota”, dando l’idea che Dio l’avesse creata così. Sbaglia parzialmente TNM che traduce: “In principio Dio creò i cieli e la terra. Ora la terra risultò essere informe e vuota”, in modo equivoco, non distinguendo bene i passaggi: stato della creazione iniziale e stato successivo.

In ebraico il tempo perfetto indica, come detto, un’azione compiuta; ciò però può essere riferito a qualsiasi periodo di tempo: passato, presente o futuro. Per l’imperfetto è la stessa cosa, indicando un’azione incopleta che può riguardare qualsiasi periodo di tempo.

Aggiungendo alla forma del perfetto (detta qal), espressa alla terza persona, i suffissi corrispondenti alle altre persone (numero e genere), si ottiene la flessione del perfetto. La flessione dell’imperfetto si ottiene invece con prefissi anteposti all’infinito costrutto qal.


Diamo quindi un' occhiata al verbo litlot nelle varire coniugazioni ebraiche ( bynyanym )

la cosa importante è capire che se la forma semplice vale come appendere

la forma intensiva vale come giustiziare


Pa'al ( qal ) forma semplice : essi appesero

תָּלוּ talù


______________________________________________________

Nif'al passivo della forma semplie : essi furono appesi

נִתְלוּ nitlù


______________________________________________________

Pi'el : intensivo attivo : essi giustiziarono

תִּלּוּ tillù


______________________________________________________

Pu'al : intensivo passivo : essi furono suppliziati

תֻּלּוּ
tullù


______________________________________________________

Hif'il : causativa attiva : essi fecero appendere

הִתְלוּ hitlù


______________________________________________________

Huf'al :causativo passino : essi furono fatti appendere

הָתְלוּ



Non c’è Hitpa'el e non è possibile fare ipotesi in quanto con prima tav non c’è nessun verbo in terza sezione in questo binian.

Mettendo insieme tutto il know_how l’estrema ratio potrebbe essere





הִתַּלוּ
hittlù

essi si fecero giustiziare



Facendo altre ricerche ho trovato


: https://milog.co.il/התלו




QUINDI

IN EBRAICO TAW LAMED HE


ת ל ה


formano il verbo , forma infinito , LITLOT



לִתְלוֺת



ora vediamo il verbo litlot nel Tanakh






GENESI XL 19

תָלָה tallàh


יט בְּעוֹד שְׁלֹשֶׁת יָמִים, יִשָּׂא פַרְעֹה אֶת-רֹאשְׁךָ מֵעָלֶיךָ, וְתָלָה אוֹתְךָ, עַל-עֵץ; וְאָכַל הָעוֹף אֶת-בְּשָׂרְךָ, מֵעָלֶיךָ


19 Ancora tre giorni e il faraone alzerà la tua testa, ti farà impiccare a un albero e gli uccelli mangeranno la tua carne addosso a te».



DEUTERONOMIO XXI , 23


תָּלוּי
tallùy



כג לֹא-תָלִין נִבְלָתוֹ עַל-הָעֵץ, כִּי-קָבוֹר תִּקְבְּרֶנּוּ בַּיּוֹם הַהוּא--כִּי-קִלְלַת אֱלֹהִים, תָּלוּי; וְלֹא תְטַמֵּא, אֶת-אַדְמָתְךָ, אֲשֶׁר יְהוָה אֱלֹהֶיךָ, נֹתֵן לְךָ נַחֲלָה. {ס
}


. 23 Il suo cadavere non rimarrà tutta la notte sull'albero, ma lo seppellirai senza indugio lo stesso giorno, perché il cadavere appeso è maledetto da Dio, e tu non contaminerai la terra che il SIGNORE, il tuo Dio, ti dà come eredità.


LAMENTAZIONI V , 12


נִתְלוּ nitlù




יב שָׂרִים בְּיָדָם נִתְלוּ, פְּנֵי זְקֵנִים לֹא נֶהְדָּרוּ.



12 I capi sono stati impiccati dalle loro mani,
la persona anziana non è stata rispettata.




2 SAMUELE XVIII , 10




תָּלוּי
tallùy

י וַיַּרְא אִישׁ אֶחָד, וַיַּגֵּד לְיוֹאָב; וַיֹּאמֶר, הִנֵּה רָאִיתִי אֶת-אַבְשָׁלֹם, תָּלוּי, בָּאֵלָה.



10 Un uomo vide questo e andò a riferirlo a Ioab, dicendo: «Ho visto Absalom appeso a un terebinto»


QUINDI

Pu'al : intensivo passivo : essi furono suppliziati

תֻּלּוּ tullù




כְּ


K(E) in ebraico : come , complemento di modo





כְּתֻלּוּ
k(e)tullù


ora dobbiamo dare un' occhiata allo scewà , ovvero la consonante priva di vocale





LEZIONE 1



שְׁוָא

Lo shewà ( mancanza di vocale per la consonante )


Hallora, tutti voi sapete la storiella che in Ebraico non si scrivono le vocali , ma solo le consonanti .

Le vocali sono espresse da un vasto corpus di segni diacritici , e tra questi un segno si chiama shewà

ed esprime la mancanza di vocale, il suono consonantico è SOLO.

Disgrazia vuole che lo scewà sia di 3 tipi

lo scewà nàch ( quiescente )

lo scewà merachèf ( sorvolante )

lo scewà nà ( mobile )



tutti gli scewà sono espressi da 2 puntini sotto la lettera : in questo caso una tzady : צְ

passiamo agli esempi pratici .


שְׁוָא נָח
shewà nach ( quiescente )

come nel caso della vocalizzazione moderna di Nazareth ( prima attestazione del 7 secolo , poesia sinagogagale di Qalir )


נַצְרַת
Nàtzrat


in questo caso lo scewà sotto la tzady porta a : Nàtzrat .


שְׁוָא מְרַחֵף
scewà merachèf ( sorvolante )

è uno scewà che viene usato per le forme costrutte , e ( per fortuna ) l' effetto è come lo scewà nach : mancanza di

suono vocalico . ad es la forma costrutta ( complemento di specificazione , genitivo ) di melekh : re

se devo fare il plurale ed esprimere : dei re

מַלְכֵי
malkhè



ma le cose cambiano con lo scewà nà ... :alienff:


שְׁוָא נָע
scewà nà ( mobile )

infatti in questo caso abbiamo la consonante con una e acclusa ,

ad es se devo fare il plurale di bambine , è yeladym


יְלָדִים


ovvero la yod iniziale si pronuncia con una e acclusa : ye .


Hora, ci sono regole grammaticale molto complesse che regolano l' uso dei 3 scewà ,

e delizia vuole che i grammatici Ebrei madrelingua , i Rabbym , non siano per niente d' accordo

su queste regole ... la lana caprina al confronto è acqua fresca ...

Ma per iniziare considero la LEZIONE 1 , conclusa .


Dateci 5 -10 occhiate , per l' analisi dei primi capitoli del Zolli è molto importante .



Sono ammesse domande .


zio ot :B):

ps su fb mi suggeriscono :

https://it.m.wikipedia.org/wiki/Schwa


_________________________________



ovvero potremmo avere tranquillamente ktullù



כְּתֻלּוּ








COME ESSI FURONO SUPPLIZIATI






zio ot





SEGUE
 
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view post Posted on 10/12/2016, 13:46
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il mio forum ! dove sono barionu --- zio ot

http://originidellereligioni.forumfree.it/


zio bert
 
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Fig.2(4)












LA CELEBRE


Aelia Laelia Crispis.


è una perfetta traslitterazione dall' Ebraico

elyàh leelyàh k(e)risfy'

אֵלִיָּה לְאֵלִיָּה כְּרִשְׁפִי



ovvero:

Elia a Elia come la mia fiamma

letterale :

Elia verso Elia come fiamma di me



NOTARE LA IS di Crispis



, GENITIVO 3 DECLINAZIONE ,



DI ME .



questa è solo la prima parte dell' enigma, ...



zio ot







///////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////















FOTO DA


www.libroco.it/dl/aa.vv/Studio-Cos...2001399295.html

Fig.1(3)









Monumenta illustrium virorum et elogia [Sigifridi Rybischii, Tobiae Fendtii][/size]




RM0267 BVECR Biblioteca nazionale centrale - Roma - RM - [consistenza] 1 esemplare - [tipo di digitalizzazione] integrale - copia digitalizzata


https://books.google.it/books?id=alv-44OAG...epage&q&f=false


Monumenta clarorum doctrina præcipuè toto orbe terrarum virorum collecta passim & maximo impendio cura & industria in æs incisa sumptu & studio nobilis viri d Sigefridi Rybisch, opera vero Tobie Fendt ciuis & pictoris Vratislauiensis etc





BO0304 UBOGA Biblioteca comunale dell'Archiginnasio - Bologna - BO - [consistenza] 1 esemplare, 1 microfilm



RM0267 BVECR Biblioteca nazionale centrale - Roma - RM - [consistenza] 1 esemplare - [tipo di digitalizzazione] integrale - copia digitalizzata

https://books.google.it/books?id=R2-GQWMkJ...epage&q&f=false






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CATALOGO SORBELLI ARCHIGINNASIO DI BOLOGNA






http://badigit.comune.bologna.it/FratiSorbelli/index.aspx



SALA GEMINA


http://memoriadibologna.comune.bologna.it/...-tom-1978-luogo



SALVARDI NATALE


COLLEZIONE SCELTA DEI MONUMENTI

https://books.google.it/books/about/Collez...kwC&redir_esc=y



LA PIETRA DI BOLOGNA



https://it.wikipedia.org/wiki/Pietra_di_Bologna



www.duepassinelmistero.com/PietradiBologna.htm

www.sselmi.net/aelia.html

www.simmetria.org/simmetrianew/cont...udio-lanzi.html

www.angolohermes.com/Approfondiment...lia_Laelia.html

https://books.google.it/books?id=RwIwAAAAM...0habens&f=false

https://books.google.it/books?id=_l5sPJenM...SALOMON&f=false


PIETRO LUIGI COCCHI : NUOVE OSSERVAZIONI


https://books.google.it/books?id=xoJaAAAAc...20LELIA&f=false

http://memoriadibologna.comune.bologna.it/...alta-2193-luogo

http://badigit.comune.bologna.it/books/sol...a/casaralta.pdf

www.google.it/webhp?sourceid=chrom...IA+DI+CASARALTA

www.aelialaeliacrispis.com/index.html

https://play.google.com/store/books/details?id=5xI7W9a_t0IC

ANTICHE MISURE ITALIANE

http://xoomer.virgilio.it/vannigor/unitadimisura.htm

//////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////

Il mistero della pietra

Alla scoperta di un antico segreto per le strade di Bologna di Sandro Samoggia

Collana di storie bolognesi – Costa editore





www.postfiera.org/archives/217

La pietra del mistero

Chi è particolarmente sensibile non vada oltre nella lettura, quello che vi racconto non sono, questa volta, mie sensazioni personali ma solo dati oggettivi particolarmente vividi e perturbabili, riscontrabili sulle fonti.

Come vi dicevo precedentemente a Bologna nel 1260 fu fondato un ordine di frati, una delle sue caratteristiche era quella di essere militare, in un certo senso affratellato ai Templari, per la difesa dell’ordine pubblico, potremmo dire oggi, allora dicevano per far da paciere fra le grandi famiglie in lite, sia che fossero della stessa città o meno.

Deriva il suo nome da una specifica lettura di una delle caratteristiche della Madonna, ovvero il suo essere gaudiosa nella pace, quindi l’ordine fu chiamato dei frati Gaudenti, che quindi non aveva nulla di goliardico, almeno all’inizio.
Altra peculiarità; i frati potevano vivere anche a casa propria, per quanto sposati, si obbligavano di sicuro a non praticare più rapporti sessuali.

L’ordine fu in breve riconosciuto anche dal pontefice, cosa che permise al Grande Maestro dell”Ordine di annoverare fra le proprie proprietà, ossia sedi dei frati che preferivano convivere, diversi luoghi.
Nella ns. città, o nei pressi della stessa, se ne annoverano almeno tre, il primario eremo di Ronzano, l’abbazia di Castel de’ Britti e il convento di Casaralta, sito dove attualmente risiede, a proposito di militare, una caserma.

Il convento era compreso nella proprietà dei Della Volta, già nel ‘500 si ha notizia di una lapide molto particolare, successivamente copiata per studiarla e quindi trascritta su di un’altra lapide nel ‘700; si legge che il padrone di casa la volle rifare perché la prima era quasi illeggibile però, purtroppo, più piccola, è per questo che nella lapide giunta fino a noi, furono tralasciate le ultime tre righe.

Per i puristi la copio in latino (TRANQUILLI !! più sotto la troverete anche in italiano) e, specifico, tutta intera, dato che sono appunto riuscito a trovare anche la parte mancante in quella conservata attualmente nel Museo Medievale di Bologna.

D. M.
AELIA LELIA CRISPIS
NEC VIR NEC MULIER NEC ANDROGYNA
NEC PUELLA NEC IUVENIS, NEC ANUS
NEC CASTA NEC MERETRIX NEC PUDICA
SED OMNIA
SUBLATA
NEQUE FAME NEQUE FERRO NEQUE VENENO
SED OMNIBUS
NEC COELO NEC AQUIS NEC TERRIS
SED UBIQUE IACET
LICIUS AGATHO PRISCIUS
NEC MARITUS NEC AMATOR NEC NECESSARIUS
NEQUE MOERENS NEQUE GAUDENS NEQUE FLENS
HANC
NEC MOLEM NEC PYRAMIDEM NEC SEPULCHRUM
SED OMNIA
SCIT ET NESCIT CUI PRODEST

HOC EST SEPULCHRUM INTUS CADAVER NON HABENS
HOC EST CADAVER SEPULCHRUM EXTRA NON HABENS
SED CADAVER IDEM EST SEPULCHRUM SIBI

DEI DEGLI INFERI
AELIA LELIA CRISPIS
NE’ UOMO NE’ DONNA NE’ ERMAFRODITE
NE’ FANCIULLA, NE’ GIOVANE, NE’ VECCHIO
NE’ CASTA, NE’ MERETRICE, NE’ PUDICA
MA TUTTE QUESTE COSE INSIEME
MORTA
NON PER FAME, NON PER FERRO, NON PER VELENO
MA PER TUTTO CIO’
NON IN CIELO, NON NELL’ACQUA, NON NELLA TERRA
MA OVUNQUE GIACE
LUCIUS AGATHO PRISCUS
NE’ MARITO, NE’ AMANTE, NE’ PARENTE
NON TRISTE, NON ALLEGRO E NON PIANGENTE
SA E NON SA PERCHE’ POSE QUESTO
(CHE NON E’) MAUSOLEO, NE’ PIRAMIDE, NE’ SEPOLCRO
MA TUTTO CIO’

QUESTO E’ UN SEPOLCRO CHE NON CONTIENE CADAVERE.
E’ UN CADAVERE NON CONTENUTO IN UN SEPOLCRO.
MA IL CADAVERE STESSO E’ A SE’ SEPOLCRO

Graficamente ho staccato le ultime tre righe perché si possa considerare il motivo che ha indotto gli artefici dell’attuale lapide, a trascurare di trascriverle.
Ho ben visto che il nome del supposto autore non è il medesimo, tra testo latino e traduzione LICIUS AGATHO PRISCIUS e LUCIUS AGATHO PRISCUS.
Non so se la ragione sia da imputare ad un errore o che altro, so solo che la mia fonte attuale recita come ho trascritto.

Una volta scoperto che cosa voglia dirci l’estensore del testo, almeno a me piacerebbe sapere il motivo per cui questa lapide fosse conservata, presso il convento, nonché casa, di almeno un Gran Maestro dell’Ordine.

Non vi sto a fare l’elenco dei personaggi di fama internazionale che da almeno un paio di secoli hanno provato a carpire il segreto della ‘Pietra di Bologna’, senza riuscirvi ma rimanendo essi molto più famosi del testo che non sono riusciti a decodificare.
A fronte di questo testo, l’indovinello della sfinge, scolora.

La versione più accreditata fra le interpretazioni è questa, che la lapide sia opera di una mente decisamente particolare, avente lo scopo far lambiccare il cervello al più alto numero possibile di persone.

/////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////


o letto con interesse il commento di marco del 9/12/2006 e mi sembra che la traduzione di cui è in possesso restituisca la lapide alla sua integrità, per quanto riguarda i nomi: infatti PRISCIUS non è documentato come appellativo latino, mentre PRISCUS lo è sufficientemente. La fonte di marco deve quindi avere avuto come riferimento la lapide originaria.
Per quanto riguarda i tre versi finali, è stato dimostrato dalla studiosa Maria Luisa Belelli che essi sono dell’autore greco del VI secolo Agatia lo Scolastico, tradotto in latino prima da Ausonio e poi dal Poliziano.
Devo dire che condivido con marco il dubbio che fossero ragioni di spazio ad aver fatto cadere questi tre versi dalla lapide conservata nel museo di Bologna e proprio lavorando su questo dubbio sono riuscito a trovare la soluzione dell’enigma.
Poichè però nella trascrizione di marco vi sono dei refusi di stampa (LICIUS per LUCIUS, CUI PRODEST per CUI POSUERIT) ritengo utile ripetere le notizie essenziali (che traggo dal sito http://angolohermes.interfree.it) prima di illustrare la chiave dell’enigma.

La pietra di Bologna

La lapide è stata scolpita nel XVI secolo su commissione di Achille Volta, Gran Maestro dell’Ordine dei Cavalieri Gaudenti, ed era apposta sulla parete della chiesa di Casaralta, sede dell’Ordine. Essa recitava:

D. M.
AELIA LAELIA CRISPIS
NEC VIR NEC MULIER NEC ANDROGYNA
NEC PUELLA NEC IUVENIS NEC ANUS
NEC CASTA NEC MERETRIX NEC PUDICA
SED OMNIA
SUBLATA
NEQUE FAME NEQUE FERRO NEQUE VENENO
SED OMNIBUS
NEC COELO NEC AQUIS NEC TERRIS
SED UBIQUE IACET.
LUCIUS AGATHO PRISCUS
NEC MARITUS NEC AMATOR NEC NECESSARIUS
NEQUE MOERENS NEQUE GAUDENS NEQUE FLENS
HANC
NEC MOLEM NEC PYRAMIDEM NEC SEPULCHRUM
SED OMNIA
SCIT ET NESCIT CUI POSUERIT

HAC EST SEPULCHRUM INTUS CADAVER NON HABENS
HOC EST CADAVER SEPULCHRUM EXTRA NON HABENS
SED CADAVER IDEM EST SEPULCHRUM SIBI

Cioè:

AGLI DEI MANI
AELIA LAELIA CRISPIS
NE’ UOMO NE’ DONNA NE’ ANDROGINA
NE’ FANCIULLA NE’ RAGAZZA NE’ VECCHIA
NE’ CASTA NE’ DI FACILI COSTUMI NE’ PUDICA
MA TUTTO CIO’
UCCISA
NE’ DALLA FAME NE’ DAL FERRO NE’ DAL VELENO
MA DA TUTTI QUESTI
NE’ IN CIELO NE’ NELL’ACQUE NE’ IN TERRA
MA OVUNQUE GIACE.
LUCIUS AGATHO PRISCUS
NE’ MARITO NE’ AMANTE NE’ PARENTE
NE’ TRISTE NE’ ALLEGRO NE’ PIANGENTE
QUESTA
NE’ MOLE NE’ PIRAMIDE NE’ SEPOLCRO
SA E NON SA A CHI LA DEDICHERA’.

QUESTO E’ UN SEPOLCRO CHE NON HA CADAVERE ALL’INTERNO
QUESTO E’ UN CADAVERE CHE NON HA SEPOLCRO ALL’ESTERNO
MA IL CADAVERE STESSO E’ A SE’ SEPOLCRO

Nel ‘600 il senatore Achille Volta, omonimo del suo antenato, fa ricopiare la lapide, divenuta illeggibile, informando, su una lapide più piccola, dell’avvenuta ricopiatura. E’ appunto la copia quella che si trova ora apposta al Museo Civico Medioevale di Bologna, mancante dei tre versi finali e con PRISCUS trasformato in PRISCIUS.
E su di essa tante persone si sono lambiccate nei secoli il cervello.

La chiave dell’enigma

L’idea che porta a sciogliere l’enigma della pietra di Bologna viene dall’osservazione che la lapide originariamente apposta nella chiesa dell’Ordine dei Cavalieri Gaudenti comprendeva i versi finali

HAC EST SEPULCHRUM INTUS CADAVER NON HABENS
HOC EST CADAVER SEPULCHRUM EXTRA NON HABENS
SED CADAVER IDEM EST SEPULCHRUM SIBI

ben noti agli umanisti.
E’ naturale chiedersi perchè il senatore Achille Volta, nel far ricopiare la lapide opera dell’antenato Gran Maestro, appartenente alle memorie storiche della famiglia, abbia fatto tralasciare questi versi. L’ipotesi che si può avanzare è che, ad un secolo dall’ideazione della pietra, si fosse perso il senso dell’iscrizione, ma, essendo in un’epoca in cui erano ancora in auge gli studi umanistici, fossero conosciuti i tre versi finali ed il loro autore.
I versi potrebbero quindi essere stati omessi per allontanare il sospetto che anche l’iscrizione a cui erano in coda fosse stata copiata.
Ma perché, un secolo prima, in un’epoca in cui gli studi umanistici erano ancora più fiorenti, Achille Volta, Gran Maestro dell’Ordine dei Cavalieri Gaudenti, aveva voluto aggiungere, ad un testo completamente originale nella storia dell’epigrafia, dei versi che tutte le persone di cultura conoscevano? Nasce il dubbio che essi non siano altro che la chiave di lettura dell’enigma al quale sono stati accodati, enigma che tratta comunque di una persona che è morta e di un’altra che “sa e non sa” a chi erigerà la sepoltura.

Analisi della chiave

I tre versi letti tutti insieme rappresentano essi stessi un enigma, ma ciascuno di essi, a se’ stante, ha un senso compiuto. E se ogni verso fosse un indizio per una delle soluzioni dell’enigma principale? La pietra sarebbe, per così dire, un “enigma a tre facce”, ognuna delle quali porta ad uno dei versi finali.
La struttura “a tre facce” è evidente nella maggior parte del testo: molte righe contengono infatti tre termini, mentre alcune contengono un solo termine, uguale, è da presumersi, per le tre facce.
L’ “armatura linguistica” che costringe a considerare tutte e tre le facce insieme è costituita dalle negazioni ripetute singolarmente (NEC…NEC…NEC; NEQUE…NEQUE…NEQUE) e dalle contapposizioni generalizzanti (SED OMNIA; SED OMNIBUS; SED UBIQUE).
Liberiamo allora l’iscrizione da quest’armatura. La pietra si presenta ora come un’esemplificazione, in chiave giocosa (come si addice al Gran Maestro dei Cavalieri Gaudenti), del tema:
“A volte la morte di una persona pone colui che si occupa della sepoltura in una situazione, a dire poco, ambigua”.
A sostegno della tesi vengono illustrati un dramma edificante, un dramma passionale ed un dramma esistenziale, per ognuno dei quali uno dei versi dell’epigramma serve da conclusione.

Il dramma edificante

Leggendo in verticale la prima colonna dell’iscrizione, scartando l’ “armatura linguistica”, si ha:

AELIA, VIR, PUELLA CASTA, SUBLATA FAME, COELO IACET.
LUCIUS, MARITUS, MOERENS, HANC MOLEM
SCIT ET NESCIT CUI POSUERIT.
HAC EST SEPULCHRUM INTUS CADAVER NON HABENS

Cioè:

AELIA, O UOMO (apostrofe al passante), FANCIULLA CASTA,
UCCISA DALLA FAME (dagli stenti), GIACE IN CIELO.
LUCIUS, MARITO, TRISTE, SA E NON SA QUESTA MOLE PER CHI
SARA’ ERETTA (perchè se Aelia giace in cielo non può trovarsi nella mole)
QUESTO E’ UN SEPOLCRO CHE NON HA CADAVERE ALL’INTERNO

Il dramma passionale

Leggendo in verticale la seconda colonna dell’iscrizione, ancora scartando l’ “armatura linguistica”, si ottiene:

LAELIA, MULIER, IUVENIS MERETRIX, SUBLATA FERRO, AQUIS IACET.
AGATHO, AMATOR, GAUDENS, HANC PYRAMIDEM
SCIT ET NESCIT CUI POSUERIT.
HOC EST CADAVER SEPULCHRUM EXTRA NON HABENS

Cioè:

LAELIA, O DONNA (apostrofe alla passante, più sensibile alle storie
passionali), RAGAZZA DI FACILI COSTUMI (meretrix non è qui la
professione, ma una qualifica del comportamento), UCCISA DAL FERRO
(dal pugnale), GIACE NELL’ACQUE (dopo il delitto il cadavere è stato
fatto sparire in un lago, o in un fiume, o in mare).
AGATHO, AMANTE (ma amator ha un significato più intensivo rispetto
ad amans, per cui direi meglio “che continua ad amarla”), ALLEGRO
(perchè ora Laelia non può più essere di altri), SA E NON SA QUESTA
PIRAMIDE PER CHI SARA’ ERETTA (perchè se la dedica a Laelia dovrà
ammettere il delitto e l’occultamento di cadavere).
QUESTO E ‘ UN CADAVERE CHE NON HA SEPOLCRO ALL’ESTERNO

Il dramma esistenziale

Leggendo in verticale la terza colonna dell’iscrizione, sempre scartando l’ “armatura linguistica”, si ha:

CRISPIS ANDROGYNA, ANUS PUDICA, SUBLATA VENENO, TERRIS IACET.
PRISCUS, NECESSARIUS, FLENS, HANC SEPULCHRUM
SCIT ET NESCIT CUI POSUERIT
SED CADAVER IDEM EST SEPULCHRUM SIBI

Cioè:

CRISPIS ANDROGINA, VECCHIA PUDICA( che quindi non ha mai
svelato a nessuno il suo segreto), UCCISA DAL VELENO (un suicidio
dopo anni di sofferta esistenza), GIACE PER TERRA.
PRISCUS, PARENTE, PIANGENTE, SA E NON SA QUESTO SEPOLCRO
PER CHI SARA’ ERETTO (egli pensa che sia per un’anziana parente,
mentre in effetti potrebbe dirsi che è per un anziano parente)
MA IL CADAVERE MEDESIMO E’ SEPOLCRO A SE STESSO
(perchè custodisce il segreto della sua natura).

Conclusione

Mi sembra che a questo punto la storia dell’enigma della pietra di Bologna possa degnamente riassumersi come segue:

ACHILLE SCRISSE LE PAROLE SUE
UNENDO I VERSI DI UN ANTICO VATE.

ACHILLE SCRISSE LE PAROLE ALTRUI
TOGLIENDO I VERSI DI UN ANTICO VATE.

ACHILLE LESSE I VERSI DI QUEL VATE
SVELANDO LE PAROLE CH’ALTRI SCRISSE.

Naturalmente dei tre distici il primo si riferisce ad Achille Volta, il Gran Maestro dell’Ordine dei Cavalieri Gaudenti, il secondo ad Achille Volta, il senatore suo discendente, il terzo ad Achille Valletrisco, l’autore di questo commento.
Ma se li leggiamo tutti insieme ho l’impressione che incapperemo in un nuovo enigma!
 
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view post Posted on 10/2/2017, 11:37
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LA TRADUZIONE PERDUTA DEL NECRONOMICON





di Giuseppe Lippi








Nell'aprile 1952 chiudeva i battenti, per un misto di difficoltà economiche, complicazioni giuridiche e cause più strettamente legate alla crisi del gruppo di cui era portavoce, la rivista parigina Cahiers Noirs, che era stata fondata vent'anni prima da Claude Lussìnat. L'ultimo numero si distingueva per avere in copertina dove di solito campeggiava la sola testata, in viola su fondo nero la dicitura:

Sur le Maitre Giulio Camillo Delminio, par Rattimiro Bulgheroni.



Si trattava del breve saggio (otto pagine) in cui un oscuro corrispondente italiano della rivista di magia presentava un ritratto in chiave eterodossa dell'umanista e letterato rinascimentale nato a Portogruaro verso il 1485. La tesi di Bulgheroni era che l'attività magica e cabalistica di Delminio ne avesse influenzato l'opera letteraria, anche se in modo solo parzialmente evidente, e che comunque fosse stata quella il suo principale accomplissement, mentre la produzione poetica o teorica sarebbe del tutto marginale rispetto a essa.

L'idea che Delminio fosse un grande mago non era certo nuova; ma Bulgheroni, dopo aver fatto riferimento alla sua nota attività alchemica, e dopo avergli senz'altro attribuito « la création in vitto du premier homunculus », citava un breve passaggio della biografiache Marco Scotto scrisse alla fine del secolo XVI in cui si legge che il cabalista non trascurò le fonti di studio islamiche, e che dal mondo arabo riportò « I preziosi insegnamenti di un maestro ingegnosissimo, Abdul Azhared di Sanaa » (1).

(1) È la trascrizione corretta del nome arabo: Azhared, e non Alhazred, come poeticamente si è invece permesso Lovecraft.



Bulgheroni afferma che l'alchimista veneto conobbe senz'altro il Necronomicon, e che anzi ne tentò una versione in volgare. A quest'affermazione seguono alcune brevi considerazioni cronologiche che sembrano suffragare quest'ipotesi: verso il 1550 apparve in Italia, e fu stampata a Roma, la versione greca di Teodoro Fileta, che però già da tempo circolava in edizioni limitate e mi-noscritte nei circoli esoterici della penisola.

È convinzione di Bulgheroni che l'editore e curatore dell'edizione romana, Francesco Guiduccio, fosse strettamente legato a Delminio, e che in un primo momento fosse stato da lui spronato a leggere e studiare l'opera. Quando il libro apparve (per l'esattezza nel 1548, come Mare Michaud è riuscito a stabilire) l'alchimista veneto era scomparso da soli quattro anni.


Nella biografia di Marco Scotto, Guiduccio è effettivamente definito « il corrispondente più regolare » di Delminio, che verso la fine della sua esistenza risiedeva in Milano al servizio del Mar-chese del Vasto: secondo Bulgheroni lo stampatore romano ebbe fra le mani la traduzione italiana che Delminio aveva fatto del Necronomicon, ma se poi pubblicò il testo greco fu « per preciso legato del suo Maestro ».

Quando il breve saggio dei Cahìers Noirs si chiude molti interrogativi restano aperti: chi fu effettivamente Delminio? Come venne a conoscenza del Necronomicon e in che modo lo tradusse? Per quale ragione chiese a Guiduccio di non pubblicare la sua traduzione? E infine: è essa reperibile, oggi, o è andata perduta come buona parte degli scritti esoterici delminiani?

Sebbene la fonte ufficiale più autorevole a proposito dell'alchimista di Portogruaro rimanga la biografia dello Scotto, due altri volumi servono a un miglior inquadramento del suo tempo e della sua opera: I neoplatonici del Rinascimento di Arturo Boffa (Laterza, 1929) e il monumentale Magie Lore in Western Highbrow Culture edito dall'Oxford University Press nel 1965.

Lo Scotto ci fornisce l'anno di nascita di Delminio, che forse è il 1485, ma che bisogna prendere con beneficio d'inventario per-ché ciò che interessava l'antico biografo era porre in rilievo certe coincidenze spettacolari e perlomeno strane atte a suffragare la « leggenda » sorta intorno al personaggio già in quegli anni. Ora, il 1485 fu un anno specialissimo per Portogruaro (2), come Marco Scotto non manca di far osservare.

(2) Vedi: G. POLIAZIANI, Rist. veti,, voi. IX, 1666.

In febbraio nacquero due gemelli siamesi che vengono descritti come dèmoni: occhi rossi, pelle bianchissima, capelli fulvi sul cranio, unghie nere, ma soprattutto piedi biforcuti (3).

(3) Molti neonati venivano accusati di avere il pie' biforcuto nel Friuli
medioevale e rinascimentale; in realtà i rapporti medici più illuminati par
lano di estrema separazione dell'alluce dalle altre dita o al massimo di cur
vatura dell'alluce, dovuta spesso a una deformazione ossea causata dall'ec
cesso di calcare presente nell'acqua bevuta dalle gestanti.


In marzo un meteorite di notevoli proporzioni cadde ad alcuni chilometri dal centro abitato, scavando un cratere profondo sei metri da cui si levò per tre notti di seguito « uno detestabilissimo lezzo, e si sprigionò un colore che nessuno sapeva definire ». In maggio scoppiò quella che si credette avventatamente un'epidemia di vaiolo , ma la storia medica della regione ha dimostrato che si trattò solamente di una forma non grave di scrofolosi e i più solerti abitanti della città si recarono nel cimitero giurando di aver udito « i morti mastichare », scoperchiarono diciassette tombe e, avendo trovato svariati cadaveri in stato d'inspiegabile conservazione, ne trafissero il cuore con altrettanti paletti, secondo la credenza che il morto masticante, o vampiro, è portatore di vaiolo e peste (4).

(4) Per questo vedi pure: A. CALMET, Dissertazioni sopra le apparizioni
de' spiriti, e sopra i vampiri o i redivivi d'Ungheria, di Moravia ecc, in
Venezia, 1756; nonché il raro De masticatione mortuorum in tumulis di
Michel Rauff.



Ma in settembre accadde l'avvenimento più inspiegabile di tutti: il sottosuolo della regione fu scosso per due settimane da violenti boati sotterranei, anche se non restano cronache di sismi o altre calamità naturali, e Scotto pretende che alcuni abitanti della città per scongiurare quei rumori si recassero di notte oltre le porte cantando inni non cristiani, per la qual cosa, come riferisce, « tre dottori e dodici signori mercanti furono condannati alla gogna ». Le entità che quegli sventurati cercavano di propiziarsi erano, sempre stando al biografo di Delminio, Belial e logge Sotote.


Il 1485 è poi naturalmente anche l'anno di uno dei più celebri processi per stregoneria nel Friuli, anche se Scotto stranamente non lo riferisce (5).

(5) Per questo vedi: MARGARET MURRAY The God of thè Witches, Oxford
University Press (tr. it.: Il dio delle streghe, Ubaldini, Roma 1972).


Fin da giovanissimo Delminio fu versato negli studi umanistici, dimostrando una profonda conoscenza delle lingue classiche e orientali. Scotto lo dipinge, ma è di nuovo per star dietro alla leggenda, come un ragazzo che a diciannove anni superava di statura qualunque gentiluomo e cavaliere nel Friuli, aveva lunghi capelli neri che gli scendevano sulle spalle, un volto forte e ossuto, fieri occhi ardenti e un naso aquilino lunghissimo. Se con la luce che gli brillava nello sguardo dimostrava un'assoluta padronanza della volontà e dell'intelletto, con le mani lunghe, molto magre riusciva benissimo in qualunque attività pratica: era un formidabile schermidore, un ottimo tiratore con l'arco, un bravissimo tessitore (poiché fin da fanciullo aveva considerato la filatura « un'arte che della vita dispiega lo svolgimento »), e, pare, un amante fuor dell'ordinario. Scotto lo ritrae come un Casanova cinquecentesco, anche se un cronista francese, Jacques Dubrillard,lo tratta invece come un eremita misogino allorché deve dipingerne il soggiorno alla corte di Francesco I (6).

(6) Vedi: Henry Klem, che cita Jacques Dubrillard in La France et
la Renaissancs obscure, Editions de Philosophie, Parigi 1964.

E' probabile tuttavia che nei francesi ci fosse un certo inte-resse a screditare il « mago » proprio per Ì suoi troppi successi in campo sentimentale. È rimasta relativamente famosa la lettera di un'alta dignitaria della corte di Francesco I, Marie Laven, che così si lamenta:

« II (Delminio) m'avait promis une absolule ftdelité et dédition, mais j'ai découvert qu'il sorts de sa chambre quand la lune est haute pour réjoindre une cocotte de nude beante, celle qui appellent 'la sorcière', et qu'ils foni l'atnour d'une facon bestiale et très peu chrétienne. Mon coeur est seni avec sa jealousie » (7).

(7 Egli (Delminio) mi aveva fatto promessa di assoluta fedeltà e dedizione, ma ho scoperto che di notte, quando la luna è alta, esce dì sua camera per raggiungere una sgualdrina di nessuna beltà, quella che chiamano 'la strega', e che fanno l'amore in modo bestiale e assai poco cristiano. Il mìo cuore è solo con la sua gelosia a (Marie Laven, Documents
de France, a. IX voi. IV).




Quasi a ratificare la diffusa opinione sulla crudeltà del casanova viene la credenza popolare secondo cui Delminio avrebbe stretto in gioventù un patto col Diavolo per ottenere tutte le donne che desiderava. Questo particolare è negato da Scotto con un certo compiaciuto disprezzo, e si capisce perché, ma nei Neoplatonici del Rinascimento Boffa si esprime così:

«È impossibile stabilire fino a che punto l'esaltazione mistica e spirituale nei rappresentanti 'oscuri' di questo filone confinasse con la vera e propria demonologia... tuttavia... si può fare per tutti il caso di G. C. Delminio, la cui reputazione si fece pessima con gli anni a Venezia e a Portogruaro, ma che fin da giovane era stato ritenuto un adepto dì forze oscure, specialmente al fine dell'incantamento amoroso. Del resto l'autore incriminato non fece nulla per dissuadere i suoi contemporanei da questa convinzione, ma semmai l'alimentò » (8).

(8) A. BOTTA, op. cit., pag. 317.

È probabile che con l'ultima affermazione Boffa intenda riferirsi soprattutto a quelle considerazioni, contenute nelle annotazioni sopra le rime del Petrarca, in cui Delminio si esprime con .ambiguità a proposito del sentimento di trepidazione amorosa, lasciando trasparire un'aura di superiorità invincibile nei confronti della donna, che non sarebbe oggetto degno di troppe cure. Vale la pena soffermarsi un momento su questo aspetto della perso¬nalità delminiana, e meravigliarsi che da un lato potesse espri¬mersi con tanto cinismo e dall'altro concepire versi come questi:

Donna, altro messaggero non ho che inviarvi io possa per cui osi il mio cuore presentarvi, Fuorché la mia canzone, se vorrete cantarla.


In realtà Delminio sentì profondamente il trasporto verso il femminile anche inteso in senso simbolico, e non disprezzo mai le sue amanti. È vero però che tenne un contegno di sicurezza ostentata nei loro confronti, come se fosse certo di non poterle perdere, e che esse dipendessero in tutto da lui.

Sull'argomento della pena d'amore si espresse eloquentemente: è evitabile se l'uomo è forte, ma se vogliamo deliziarci anche di quella « dulcia tristia », facciamolo senz'altro: a patto di restare sempre padroni della situazione. Fu questa fiducia incrollabile, questa certezza nella possibilità di dominare. le passioni a indurre il sospetto nei contemporanei. In realtà Delminio non ostentava arroganza, voleva piuttosto parafrasare un'evoluzione spirituale.

Ma la fantasia popolare si accese quando una donna di Venezia, Letizia Costantinide, che da lungo intratteneva relazioni col Maestro, fu vista scomparire dalla circolazione senza che il suo amante volesse rivelare nulla in proposito.

Una sera, racconta Marco Scotto con l'aria di riferire un'assurda calunnia, poco prima dell'imbrunire si udì un alterco venire dal palazzo di Delminio, e poi un sottile lamento che durò fin quasi al levarsi della luna. Infine, poco dopo che il sole era sceso dietro l'orizzonte, da una delle finestre della torre si affacciò una donna, che spinse tutto il corpo in fuori, in modo che i passanti credettero volesse suicidarsi.
Ma quella donna possedeva un paio di grandi ali, anche se non aveva più le braccia, e con esse spiccò il volo scomparendo oltre l'orizzonte tra orribili versi d'uccello. Gli astanti giurarono che si trattasse di Letizia, anche se con la luce incerta sarebbe stato difficile giudicarlo, e gridarono che « il Dottore » (cioè Delminio) l'aveva fatta impazzire e le aveva amputato gli arti. Altri, più esplicitamente, dissero che l'aveva convinta a vendersi al Demonio e che questi l'aveva trasformata in strega.

E quasi certamente un'esagerazione — o, se si vuole, una triste metafora — del suicidio cui andò incontro la Costantinide. Ma, siccome non esistono più prove, la leggenda di stregoneria è tutto quello che ci rimane di un dramma mai chiarito.

Fatto sta che, nonostante la sua influenza e le sue ottime conoscenze, dopo questo episodio Delminio dovette abbandonare la casa e cominciare una serie di peregrinazioni; il palazzo non venne venduto, ma lasciato ad un giovane cugino originario di Pirano, il quale lo esplorò sistematicamente e che ci ha lasciato una preziosa catalogazione del materiale trovato (9).

(9) Oggi custodita privatamente a Venezia, coll. Dei Brioschi.



Tra queste cose si ricordano; molti strumenti geografici; mappe e curiosi disegni di paesi che secondo il giovane beneficiario « non esistono su la Terra»; manoscritti inediti dello stesso Delminio (tra cui l'abbozzo di un'opera progettata, mai compiuta, che doveva intitolarsi Teatro, intesa in senso retorico a rappresentare la fonte di ogni dottrina, e fornire quasi meccanicamente la scienza ad ogni uomo senza alcuna fatica, secondo un'illusione che sarebbe stata pure di Giordano Bruno); una vastissima biblioteca in latino, greco e arabico e una considerevole quantità di corrispondenza, buona parte della quale scritta nel linguaggio crittografico che Delminio adoperava nelle epistole di Dottrina, termine con cui talvolta designa l'Alchimia.

Fra le lettere non cifrate, e che dunque luì era in grado di leggere, il giovane di Pirano (che si chiamava Clemente Amine) ne trovò una di una giovane donna piemontese, che si firmava Margherita, e che scriveva in sostanza parole d'amore; fra queste però (poiché sì trattava di un'iniziata) compare a un tratto un periodo che attrasse l'attenzione del curioso Clemente:

« Onde ti priego di non più studiare le carte dell'Arabo, poiché sono di conoscenza malevola, e il greco Fileta che le tradusse compì altri errori. La follia prende a troppo almanaccarvi, e a nulla conseguenza portano le Impetrazioni, che non sia di natura bassissima. Contra-rio a ogni cammino è il Necronomico » (10).

(10) Coll. Dei Brioschi.

Sull'identità di Margherita sono state fatte varie ipotesi; Marco Scotto afferma che abitava a Intra, sul Lago Maggiore, dov'era nata, e che da sola governava una casa grande e quieta a specchio dell'acqua; la dipinge come un'iniziata a conoscenze proibitive, data l'epoca, per una donna, ed è forse per questo che si sente in dovere di chiamarla « striga » (maga) in due punti, ma non con connotazioni spregiative.

Era una donna bellissima che Delminio aveva conosciuto in un primo viaggio a Milano e anche l'unica che gli sarebbe rimasta vicina — con la corrispondenza, l'amicizia — per tutta l'esistenza. In un documento perduto, ma che Scotto conosceva, Delminio la descrive bassina, della statura che fa deliziose le giovani donne; i capelli erano lunghissimi e leggermente crespi, di modo che si gonfiavano facilmente: il loro colore era chiaro, ma non biondo: «come paglie, fieni, felci», dice il suo amante in un brano riportato integralmente.

Aveva gambe piccole sotto le cosce ben tornite, e occhi molto lunghi, e una bocca curva e rossa. Delminio si chiese quante altre donne adoperino il rosso che lei sa darsi alle labbra, di una tinta che non ha mai veduto.

Fu lei a riceverlo dopo la partenza dal Veneto, e ad ospitarlo a Intra per un periodo probabilmente lungo. Marco Scotto scrive forse uno dei capitoli più affascinanti — ma più romanzeschi — dell'intera biografia a proposito di questo periodo: i due amici scendevano alla sera verso le oscure acque del lago e osservavano le costellazioni di cui erano entrambi esperti, e dal disegno che li colpiva di più traevano spunto per un sonetto, quasi sempre a sfondo magico. Delminio amava la pace, ma, fresco della lettura dei frammenti greci del Necronomicon, faceva strane considerazioni sul giorno in cui « le stelle tornerebbero nella Vecchia Posizione », e paventava ciò che sarebbe accaduto agli uomini.

Margherita lo rimproverava per quelle letture — sebbene a sua volta possedesse una parte della traduzione di Teodoro Fileta — e lo consolava dicendogli che quel giorno lontano essi non lo avrebbero mai visto. Allora una malinconia desueta vinceva il mago, che si struggeva di non saperla immortale (a questo argomento dedicò qualche verso) e dichiarava che il vero fine della sua Opera non poteva essere altro che assicurare una vita eterna a Margherita. Tra parentesi, in quel periodo egli compì importanti esperimenti sulla creazione dell'omuncolo o uomo artificiale, e si applicò con dedizione allo studio dell'immortalità. Un poeta milanese del XIX secolo, Augusto Terzani, conobbe e si innamorò di una Margherita di Intra e sostenne in qualche delirante sonetto che dunque Delminio era riuscito nello scopo di renderla eterna (11): e del resto se ne ricordò poi Carlo Dossi.

(11) AUGUSTO TERZANI, A Margherita in Le Rime dell'Immortalità, Milano 1899.

Come e perché l'umanista/mago decidesse di abbandonare quell'idillio e passare in Francia non è del tutto chiaro, ma forse fu all'epoca di una malattia di Margherita, che soffriva di visioni e riteneva il suo lago intensamente popolato di spettri; certo i due promisero di rivedersi entro breve tempo, e continuarono a scriversi per tutto il periodo che il Maestro trascorse alla corte di Francesco I.

Attraverso questa corrispondenza — quasi tutta dispersa in collezioni private, ma ben riassunta nel Magie Lore in Western Hìghbrow Culture — appaiono evidenti le trasformazio-ni che l'ambiente francese operò su Delminio: si fece più sensibile all'influenza cabalistica e si avvicinò con interesse ben più che accademico alle conoscenze antichissime cui rimandava la traduzione di Teodoro Fileta.

Secondo l'amabile « striga » di Intra, a Parigi il suo amico potè vedere una copia manoscritta della versione a-raba del libro, Al Azif. È difficile decidere se ciò sia stato veramente possibile, o se Delminio non si vantò — avendo già co minciato a lavorare sul testo greco — per imprimere un marchio di maggior attendibilità alla sua traduzione. Come si sa, infatti, solo tre copie del testo arabo sarebbero sopravvissute al suo autore, Abdul Azhared. Non è impossibile però che proprio uno dei più strani personaggi del secolo, il cabalista Olivier Heyquem, fosse riuscito a far transitare per la sua casa il testo segreto ed a mostrarlo all'italiano, che era con lui ancora in ottimi rapporti.

Debbo ancora una volta alla cortesia di Enrico Fulchignoni l'invio dell'unico documento rimasto della corrispondenza « scientifica » fra G.C. Delminio e Heyquem, che risale ai primi mesi della permanenza parigina e già dimostra l'interesse ritualistico, oltre che letterario, portato dal nostro verso il complesso di credenze riassunte nel Necronomicon:



« Parigi, 1 maggio.
Fratello, a lungo lavorai a riportare Indietro ciò che
credono Perduto, e la notte addietro pronunciai le pa
role che richiamano logge Sotote, e per la Prima Vol
ta vidi la Faccia di cui Parla Ibn Schacabac nel
E mi disse che il Salmo III del Liber Damnatus conteneva la Chiave: col Sole in Quinta Casa, Saturno in Terza, traccia il Pentagramma del Fuoco, e recita tre volte il Nono Verso. Questo ripeti ogni Calendimaggio e ogni Vigilia d'Ognissanti, e la Cosa crescerà nell'Esterne Sfere. E dal Seme degli Antichi Uno nascerà, che tornerà indietro, pur non sapendo Ciò che Vuole... » (12).


(12) La traduzione in italiano moderno è nostra.


Evidentemente Delminio descriveva in dettaglio all'amica Margherita queste esperienze, perché lei lo ammonì ripetutamente di abbandonare la fallacia del Liber Damnatus (il Necronomicon evidentemente), inconciliabile con ogni altro testo di elevazione;ma egli le rispose che « dove c'è l'abisso, l'alto e il basso non contano più, e solo la conoscenza importa » (13).

13) Citato in Magie lare, cit., pag. 364. Il testo inglese, desunto da fonti originali, suona: « Where is thè abyss, Vpward and Downward are meanin-gless: Knowledge is remarkable indeed ». E un poco più avanti il mago confessa: « The Abyss is where Yogge Sothothe dwells, and he's a blind daemon whose force we can sense on Earth only when profoundly asleep. But you Margaret, do not worry: Beings from Outer Spheres are not in-terested in what we consider our Soul ». È curioso che una frase quasi del tutto identica sia stata scritta nel 1599 da John Dee, nella corrispondenza col dottor Edmund Felton.

La credenza che sia possibile, da parte del mago, riportare in essere le entità primeve oggi dormienti, o addirittura generarle (si veda la suggestiva allusione ai « semi ») ispirerà non solo Delmi-nio, ma più tardi John Dee (1527-1608), l'altro grande traduttore moderno del Necronomicon. L.M. Lombardi Satriani, da esperto di storia delle religioni, osserva come l'idea che si possa richiamare, o anche alimentare la divinità non è affatto nuova, e come l'idea dei « semi » di Delminio trovi una curiosa corrispondenza in certe credenze oceaniche e dell'Isola di Pasqua; il Necronomicon viene da cultura e ambiente arabico: colà, l'idea di « seme » che germoglia nelle « Esterne Sfere » parrebbe indicare una traccia di rapporto familiare con la divinità.

La traduzione di Delminio fu quasi certamente finita prima del ritorno in Italia, perché il soggiorno francese si protrasse più del previsto; egli la sottopose ad una revisione di Heyquem, ma secondo Marco Scotto tra i due scoppiò una grave divergenza, in parte alimentata da una donna, che si sarebbe conclusa in un duello se la sera precedente lo scontro il cabalista francese non avesse trovato la morte fra le braccia della cortigiana, Haydée Mismas. Delminio tornò in Italia non molto tempo dopo, ancora profondamente innamorato di Haydée, che era stata la causa di non poche sue traversie; due mesi dopo la partenza dell'alchimista ella trovò comunque la morte a causa di un incubo che la perseguitava da lunghissimo tempo.

La prima tappa del nuovo soggiorno italiano di Delminio fu Intra, dove Scotto racconta che la gente lo costrinse ad allontanarsi allorché cominciò a mettere in pratica gli insegnamenti dei suoi grimori; se si trattasse anche del Necronomicon (che l'alchimista aveva intitolato Libro volgare de' Morti E delle Cose Credute Perdute) non è sicuro, ma stupirebbe il contrario.

La genteudiva, a sentir Scotto, « tremori notturni, romori sotterranei, vedea colori senza nome nel cielo e sul Lago »; Margherita cadde vittima d'un attacco di febbri, e dopo averle prestato alcune cure « meravigliose » l'umanista, che da tempo si fregiava del titolo di Dottore (in medicina, benché fosse un semplice guaritore spontaneo) la lasciò per andare a Milano. Qui si sistemò al servizio del Marchese del Vasto, che apprezzava l'astrologia, la cabala e le doti taumaturgiche, ma aborriva la magia e a stento tollerava la collezione di grimori del suo protetto (14).

( 14 ) La quale, a quell'epoca, ammontava a oltre sedicimila fra mano
scritti, in folio e edizioni a stampa correnti


Sei mesi più tardi Clemente Amino moriva nella casa di Portogruaro, che tornava così libera per il suo padrone. I particolari del decesso sono raccapriccianti, ma bisogna cercare negli annali di storia veneta per trovarne traccia, poiché Marco Scotto ne tace (15):

(15) Bull. Hist. Ven. CXI, 1568.

perseguitato dall'ossessione di « una cosa alata, femminile », che durante la notte avrebbe avvolto la casa nelle sue ali nere isolandola dal resto dell'universo, il giovane piranense dapprima accusò attacchi di violenta claustrofobia, e infine cominciò a provare difficoltà di respirazione all'approssimarsi delle tenebre. Una notte infine rimase stroncato da un vero e proprio accesso d'asfissia.

Nel Concilio di Medicina di Portogruaro (1550) il caso veniva ricordato ancora come esemplare, e descritto con dovizia di particolari nonostante gli anni trascorsi: l'oscurità era, per l'ossesso, fonte di sofferenze fisiche e spirituali; la presenza di un cappellano, che era bastata a fugare gli attacchi di claustrofobia, non bastò più a trattenere quelli d'asma, o « brevità di respiro »; Clemente parlava di un'arpia immensa, non generata da questa Terra o da uno dei mondi infernali, ma da Sfere Esterne governate da « Quelli di Prima », che opprimeva la sua dimora e il suo petto dal crepuscolo all'alba del mattino successivo.

Se, nonostante la difficoltà di respirazione, lui riusciva ad addormentarsi, il mostro gli divorava lentamente una parte dell'intestino, facendolo risvegliare fra atroci dolori. La nemesi ebbe fine, con la morte del paranoico, quattro mesi dopo essere iniziata. Il rifiuto da parte di Delminio di recarsi a visitare il parente (adducendo scuse) fu interpretato dai più come la prova che l'occultista non era estraneo agli incubi di suo cugino, e questa è una prova in più della fama ambivalente del personaggio, che qualcuno considera degnadella sua natura ambivalente: umanista e occultista, dottore e stregone, alchimista e invasato, capace d'amore e tormentatore. Ma purtroppo dietro tanta anedottica è ormai impossibile ricostruire un'autentica personalità, al di là dei tratti sommari che abbiamo indicato.

Dopo la morte di Amino la casa di Portogruaro non fu occupata, come ci si sarebbe attesi, dal Dottore o dalla sua leggiadra compagna Margherita: evidentemente la sistemazione milanese era così felice che Camillo Delminio decise di rimanere nella capitale lombarda, chiamandovi anzi l'amica. Lei non accettò di venirvi stabilmente, ma il popolino mormorava che avesse mezzi tutti suoi per spostarsi immediatamente dalla non lontanissima Intra. Nella villa di Portogruaro si udirono, con il passare dei mesi, rumori sempre più strani e ripetitivi: come se effettivamente qualcuno abitasse la dimora dell'occultista.

Rattimiro Bulgheroni specula, nei Cahiers Noirs, che forse Delminio

« Aveva cominciato a nutrire ciò che aveva richiamato dall'Abisso, o Esterne Sfere; aveva coronato di successo il piano di una vita (della parte più bizzarra e misconosciuta, almeno, della sua vita) e aspettava che la Cosa alchemica, l'essere preternaturale avesse l'età e la forza di uscire pel mondo » (16).


(16) R. BULGHERONI: Sur le Maìtre Giulio Camillo Delminio, in Cahiers Noirs, mars-avril 1952, Paris, Lecouture; oggi: Bibliothéque Nationale. La traduzione è nostra.

Bulgheroni è una figura particolare, e su ciò ci soffermeremo in chiusura; nondimeno ha ragione nel sottolineare che la paura dell'alchimista e dei suoi dèi neri alimentò in quegli anni uno dei più suggestivi e confusi intrecci di dicerie dell'intera regione.

Quanto all'uomo che desiderava l'immortalità, che aveva creato Vhomunculus e condotto una delle vite più avventurose e ambigue dei suoi difficili tempi, morì a Milano quasi in solitudine nel 1544, dopo una senescenza precoce, una serie di malattie inspiegabili e sconosciute (che lo privarono, tra l'altro, della sua virilità) e tormentato dai rimorsi. Di questo fa fede, oltre alla conclusione dell'esaltata biografia di Scotto, una lettera-testamento del 1543 indirizzata a due sole persone: Margherita e l'editore romano Francesco Guiduccio, in cui Delminio proibisce espressamente di rendere nota la sua traduzione del Libro volgare de' Morti, e prega Dio che « lo 'nfame Necronomico stesso » venga « purgato, escluso alla conoscenza, allontanato dai libraii » e perfino dagli istituti di sapere (lui che, come ha dimostrato Bulgheroni, nel 1540 aveva proposto agli Accademici dell'Università di Bologna di custodire una copia della sua versione manoscritta) (17).

(17)È probabile che Scotto avesse tutto l'interesse a mostrare un pen
timento finale e una riconciliazione con l'ortodossia religiosa del suo idolo,
ma il documento appena citato, e altri custoditi presso la Biblioteca
di Palazzo Sormani in Milano, attestano effettivamente uno stato d'animo
angoscioso, e qualche volta dichiaratamente rammaricato. Si tratta comun
que di testi piuttosto confusi, talvolta crittografati, la cui chiave non è
sempre facile sciogliere; come non è semplice separare le parti « dottrina
rie » da quelle autobiografiche concepite dall'alchimista morente.



Tormentato da visioni apocalittiche, il Dottore chiuse gli occhi urlando — secondo gli astanti — che temeva di cadere, e « di continuare a cadere per l'eterno » (18).

(18) Non citato dallo Scotto, ma riferito, in base a testimonianze giuridiche dell'epoca, in / neoplatonici del Rinascimento, cit.

Questi i fatti, su cui ben pochi si erano finora soffermati; poiché però attualmente non esistono copie della traduzione delminia-na resta da chiedersi su che prove si basi la convinzione che essa sia realmente avvenuta. La fonte principale è l'opera di Rattimiro Bulgheroni, {1900-1964), tipico mezzemaniche romano: un impiegato del Ministero del Tesoro che, in quasi trentacinque anni di attività, scrisse oltre duecento fra saggi, monografie e raccolte di testimonianze su quello che lui chiamava « il mondo dell'occulto ».

Lavorava prevalentemente di sera, dopo otto o anche nove ore d'ufficio, e naturalmente alla domenica e negli altri giorni festivi; divenuto un discreto bibliografo studiò prima il francese, poi, con le facilitazioni dovute alla guerra, il tedesco; nel 1933 aveva rinunciato a sposarsi per devolvere tutti i suoi averi, e naturalmente tutto il tempo libero, allo studio e alla scrittura.

Venne regolarmente pubblicato su Luce e Ombra, e l'editore milanese Bocca gli accettò il manoscritto di una ricerca in tre tomi sui Misteri delle necropoli etrusche; redazionalmente l'opera fu però abbondantemente sforbiciata, fino ad apparire in un unico esile tomo nel gennaio 1949 (sei anni dopo la consegna del manoscritto, a causa delle difficoltà belliche).

Contrariato, Bugheroni sospese allora l'ingente lavoro cui si stava sobbarcando per realizzare i previsti seguiti di quel lavoro: Misteri delle necropoli neogreche e Misteri delle necropoli romane.


Compì le prime ricerche su Delminio nel1935, ma continuò l'impresa sino a oltre il 1950, quando fu praticamente certo dì avere ragione: l'esoterista rinascimentale aveva tradotto il Necronomicon. Egli basava questa convinzione su due fatti: le allusioni contenute nella biografia di Marco Scotto e i carteggi e la corrispondenza privata del Maestro. A onore di Bulgheroni va detto che, prima delle sue ricerche, a ben pochi sarebbe venuto in mente di correlare questa non chiara materia.

La biografìa di Scotto non parla mai del Necronomicon, ma solo del « maestro ingegnosissimo », l'arabo Abdul Azhared, e del fatto che Delminio ne conobbe e ne riportò gli insegnamenti. Quanto alla traduzione, è molto ambiguo: da un lato sembra far intendere chia-ramente che il Libro volgare de' Morti deriva da Al Azif — o dalla sua versione greca —, dall'altro, soprattutto per timore dei rigori ecclesiastici, contamina i resoconti in proposito con incredibili metafore, passaggi oscuri e deviazioni dall'argomento principale (19).

(19) Nonostante queste precauzioni il libro di Marco Scotto, concepito
intorno al 1570, rimase a lungo allo stadio di manoscritto, e quando fu edito nel 1579 si ebbe il biasimo de] Papa Gregorio XIII che lo riteneva propalatore di » fatti estranei al buon comportamento dei cristiani »; suscitò inoltre una vivace disputa fra gli intellettuali ortodossi e i più spregiudicati a proposito delle reali inclinazioni e capacità di Delminio.


Bulgheroni non si perse d'animo: rintracciò innanzitutto il carteggio tra l'occultista e l'editore romano Guiduccio (custodito quasi per intero in biblioteche vaticane) e in cambio di uno scru-poloso lavoro di catalogazione ottenne libero accesso alla raccolta.

In quattro delle lettere da lui riportate alla luce {la C, la P, la V e la CV secondo la sua numerazione) è esplìcitamente menzionato il lavoro di traduzione che il Maestro stava compiendo in Francia, la revisione apportatavi da Heyquem prima della rottura, le difficoltà incontrate sul testo greco (« non chiaro », secondo il traduttore) e l'offerta di Delminio all'Università di Bologna di custodire una copia del manoscritto.

In una quinta lettera, 2P, vi è poi il divieto fatto a Guiduccio di pubblicare la traduzione italiana (è la stessa da cui abbiamo stralciato poco sopra)(20)

(20) Sul motivo della proibizione, a parte l'eventuale pentimento circa il contenuto del grimorio, si sono fatte varie ipotesi. Bulgheroni sostiene che se Delminio aveva effettivamente visto a Parigi una copia dell'originale arabo era stato in grado di eliminare dalla sua traduzione quegli "errori" commessi da Fileta nella versione greca, a cui accenna anche la sua corrispondente di Intra, e di ottenere quindi un prodotto più fedele ma anche più « pericoloso ».

A questa teoria si è obiettato (ad es. da parte del Fojer) che all'epoca di Delminio era comunque in circolazione da poco meno di un secolo un'altra traduzione, latina, a firma di Olas Wormius; Bulgheroni sostenne sempre che:

1) Delminio non entrò mai in possesso di quella versione;

2) che, secondo la testimonianza di un lettore più che degno di fede, Monsignore Augusto Deprà, che fu tra i compilatori dell'Index librorum prohibitorum del 1557, la traduzione di Wormius era imperfetta, poco precisa e assolutamente manchevole rispetto a quella greca, allora più celebre in Italia.

La tesi del o pentimento » delminiano resta da dimostrare; alcuni studiosi moderni che hanno seguito il lavoro di Bulgheroni — Mistral, De Veistre — sostengono che alla base del divieto ci furono anche ragioni pratiche. Delminio aveva raggiunto un parziale accordo con uno stampatore francese, Xavier Basset, per far uscire la sua traduzione in Francia, in un'edizione anonima. De Veistre ha riportato alla luce una parte del carteggio fra i due nel 1968, e sostiene che Basset fece un'unica edizione — in italiano — intorno al 1547-48. Non esclude quindi la possibilità di ritrovare, oltre ai manoscritti del Dottore, anche esemplari a stampa della sua fatica. Per tutto questo si veda: JEAN-PIERRE DE VEISTRE, La conceptìon cosmìque de la magie, Hachette, Parigi 1970.

Bulgheroni dimostrò anche inconfutabilmente che tutte le volte in cui nel testo di Scotto si nomina il Liber Damnatus questo non è altri che il Necronomicon. Infine, fu il primo studioso ad avere accesso alla collezione privata Dei Brioschi, di Venezia, dove sono conservate alcune delle più importanti epistole delminiane, anche qui con evidenti riferimenti alla traduzione. Il vero svantaggio del lavoro bulgheroniano — pur filologicamente ineccepìbile — sta nella scarsità delle pubblicazioni seguite alle sue scoperte: sì deve anzi ritenere che il breve saggio dì otto pagine apparso nell'ultimo numero dei Cahiers Noirs sia il solo studio reso di pubblico dominio dopo oltre quindici anni di ricerche.

Certamente la concisione giocò un brutto tiro al saggista romano, ma uno ancora peggiore gliene preparò la sorte. È quasi certo che nella versione originale il suo testo fosse lungo quasi il doppio ma stretta nelle morse di esigenze editoriali pressanti la redazione tagliò o sunteggiò nella traduzione una parte non trascurabile di materiale. Il resto degli studi rimane ancora allo stadio di manoscritto o raccolta di appunti fra le carte dello scomparso Bulgheroni, il quale intanto è diventato a sua volta oggetto di studio.

Solo ora gli esecutori della sua proprietà letteraria hanno consegnato i manoscritti inediti alle Edizioni Atanòr di Roma, che cureranno entro l'anno un volume dedicato al più che singolare personaggio.

L'attendibilità di ricercatore del Bulgheroni è cosi confermata da Giorgio Manganelli, che lo conobbe poco prima della morte:

« Era un uomo schivo, assolutamente eccentrico in ogni abitudine; scriveva e leggeva schermando fino all'inverosimile lampadine e sorgenti di luce, sicché si può affermare che lo facesse al buio. Con gli uomini parlava molto poco, ma era prodigo di consigli verso gli animali, e specialmente i gatti randagi del suo quartiere la borgata di San Basilio.
Conosceva perfettamente il greco e il latino, e, fra le lìngue moderne, francese e tedesco li leggeva regolarmente. Era un filosofo autodidatta ma perfettamente preparato, un provetto bibliografo e un erudito conoscitore di storia delle tradizioni, specie per il verso che riguarda l'occulto e il magico.
Ha compiuto studi importantissimi di regionalistica, e mi auguro che presto i suoi manoscritti trovino un editore e un pubblico: interesserebbero almeno una mezza dozzina di scienze umane. Prima di morire, esprimeva un solo desiderio: conoscere l'arabo medievale abbastanza bene da leggere un grimoire scritto a Damasco neil'VIII secolo, e intitolato Al Azif. A patto, aggiungeva sorridendo, di rintracciarne una copia » (21).

(21)GIORGIO MANGANELLI, E un filosofo? No, uno stregone, in Tempo,
Milano, 10 febbraio 1973 pagg. 44-47. L'articolo ricordava anche, con partecipazione, la scomparsa di Bulgheroni avvenuta in circostanze tanto misteriose da renderle romanzesche. Il 4 febbraio 1964 il ricercatore solitario sparì dalla sua casa e non fu più visto da nessuno fino al 7 ottobre dellostesso anno, epoca in cui fu ritrovato morto — ma solo da pochi giorni — in una casa colonica abbandonata presso Tarquinia. Le cause del decesso non sono mai risultate chiare, anche se il certificato di morte depositato all'Anagrafe di Roma parla di trombosi ad effetto letale.



Ma se la traduzione è stata effettuata, come dai documenti esistenti appare certo, dove può trovarsi?

Risponde L.M. Lombardi Satrianì:

« L'opera magica di Delminio, come quella di altri cabalisti e pensatori eterodossi del Rinascimento, fu sottoposta a traversie secolari, e non bastò la fama di letterato e il rivestimento di pensiero neoplatonico a salvarla. Cosi, tra le menzogne, i camuffamenti crittografici, i finti o i veri pentimenti e le auto da fé e naturalmente l'inclemenza degli anni e le tergiversazioni delle seconde e terze mani non pochi di quei documenti scomparvero per sempre. Non è detto però che non riappaiano: nel caso di Deminio per tante opere perse ne restano molte integre, e molta corrispondenza si è salvata (non tutta decifrata, giova dirlo). Nel momento in cui i fili di queste conoscenze si riannoderanno, o un caso fortuito porterà alla luce nuove testimonianze, uomini ingegnosi sapranno approfittarne senz'altro, e allora vedremo forse la più famosa di queste rarità: il Libro volgare de' Morti, traduzione chiacchierata da quattro secoli del Necronomicon di Abdul Azha-red » (22).

(22) Intervista in Corriere della Sera, Milano, 16 agosto 1979.


Edited by IGNATZ DENNER - 11/1/2021, 08:34
 
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zio bert
 
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https://ilterzoorecchio.wordpress.com/2016...-cristianesimo/













LA COSPIRAZIONE PIU’ DI SUCCESSO

DELL’INTERA STORIA UMANA



di FLAVIO BARBERO





Vicisti Galilee!

Una ben nota tradizione cristiana narra che l’imperatore Giuliano, colpito da una lancia persiana e sbalzato a terra dalla groppa del suo cavallo, prima di esalare l’ultimo respiro sollevò una mano al cielo in un gesto di rabbia e di sfida, gridando: “Vicisti Galilee!”.

Si tratta di una tradizione fantasiosa, che non ha nulla a che vedere con i fatti come si sono realmente svolti, creata da un cristianesimo che voleva accreditare l’immagine di un imperatore impegnato in una titanica lotta contro Cristo, il “Galileo”, uscendone alla fine sconfitto. Una tradizione fantasiosa creata per supportare un’immagine storicamente infondata. Ed anche il concetto che questa immagine vuole trasmettere, e cioè che gli ideali per cui Giuliano si era adoperato e battuto nel corso del suo breve regno fossero usciti definitivamente sconfitti, è tutt’altro che sostenibile. Meno di trent’anni dopo, infatti, quegli ideali trovarono pratica attuazione per opera dello stesso cristianesimo trionfante.

Giuliano è passato alla storia con l’epiteto di “Apostata”, non del tutto appropriato, in quanto egli non era mai stato battezzato, anche se possedeva una conoscenza molto approfondita della religione cristiana, al punto da discutere con cognizione di causa sulle sue incongruenze, citando a memoria lunghi passi della Bibbia. Le sue critiche al cristianesimo, però, erano puramente filosofiche e dottrinali; egli non perseguitò mai la Chiesa, ed anzi proibì espressamente e condannò con fermezza ogni forma di violenza contro i cristiani.

Gli storici moderni lo hanno definito l’ultimo imperatore “pagano”, per gli sforzi che profuse nel rivitalizzare e moralizzare i più noti culti pagani dell’antichità. Ma questo non gli impedì di far completare la chiesa di Santa Costanza, a Roma, per farvi seppellire la propria moglie Elena, e di essere sepolto lui stesso nella basilica dei dodici Apostoli, a Costantinopoli. Né gli impedì di ordinare la ricostruzione del tempio ebraico di Gerusalemme (i lavori, in effetti, furono iniziati, ma interrotti subito dopo, a quanto si dice a causa di un terremoto).

In realtà Giuliano non era né cristiano, né propriamente pagano; era un adepto del Sol Invictus Mitra, come prima di lui suo zio Costantino il Grande e come la maggior parte dei senatori romani del suo tempo.

Sul mitraismo sono state scritte, soprattutto nell’ultimo secolo, una enorme quantità di opere, che però ne forniscono un’immagine del tutto irreale ed estremamente confusa e contraddittoria. La confusione nasce dal fatto che tutti gli storici moderni lo considerano una vera e propria religione, La convinzione che il Sol Invictus Mitra fosse una religione si è consolidata con lo storico Cummont, che alla fine del 19.mo secolo ha scritto quella che da allora è ritenuta l’opera fondamentale sul mitraismo, partendo dal presupposto esplicito, vero e proprio postulato privo di qualsivoglia supporto bibliografico o archeologico, che esso fosse stato importato dalla Persia da un qualche ignoto legionario romano. Ed infatti il Cummont dedica buona parte della sua opera a descrivere la religione solare persiana e le sue varie diramazioni e filiazioni orientali, come il Mazdeismo, il Magismo e così via.

Uno dei maggiori studiosi moderni del mitraismo, M.J. Vermaseren, condivide l’impostazione di Cummont, ma avverte: “Gli studiosi dei misteri di Mitra si trovano di fronte ad una difficoltà insormontabile e cioè: per quanto riguarda la forma persiana del mitraismo esistono soltanto evidenze letterarie, mentre il Mitra del mondo romano ci è noto quasi esclusivamente attraverso fonti non letterarie, archeologiche. Franz Cummont, quel brillante studioso morto nel 1947, ha chiaramente descritto questa situazione nel suo libro Die Mysterien des Mithra: ‘E’ come se, egli scrive, volessimo studiare il cristianesimo avendo a disposizione soltanto il Vecchio Testamento e le cattedrali medioevali’. A causa di questo enorme divario fra le fonti di informazione, la storia di Mitra è destinata a rimanere per sempre incompleta e distorta.”

In altre parole, abbiamo da una parte una religione persiana di Mitra, sulla quale esiste una abbondante letteratura, ma nessun resto archeologico, o quasi; dal lato romano, invece, abbiamo centinaia di mitrei ed altre testimonianze archeologiche relative a Mitra, ma pochissime testimonianze letterarie sull’argomento, nessuna delle quali proveniente dall’interno stesso dell’organizzazione, e cioè da uno dei suoi membri. Il problema nasce appunto dal fatto che Cummont ha postulando fin dall’inizio della sua ricerca, senza mai dimostrarlo, che il culto di Mitra quale veniva professato nell’impero romano fosse la fotocopia della religione persiana.

Questo postulato è stato accettato acriticamente da quasi tutti gli studiosi successivi, che si sono in maggioranza dedicati ad interpretare le evidenze archeologiche romane alla luce della letteratura persiana. Ad approfondire i vari aspetti del magismo persiano, o a ricostruire gli aspetti esoterici ed astrologici del mitraismo romano, basandosi sulle scarne notizie fatte filtrare dalle fonti antiche ed integrandole arbitrariamente con elementi presi a prestito dalle fonti orientali e dalla mitologia greco-romana, per cercare di ricostruire in qualche modo contenuti e significati dei vari gradi iniziatici in cui l’istituzione mitraica era suddivisa. Ne risulta un quadro complessivo irreale, in stridente contrasto con quella che appare essere la realtà storica ed archeologica di questa istituzione.

In realtà se c’è una cosa che appare con assoluta evidenza da tutto il materiale disponibile è che il cosiddetto culto di Mitra, a Roma, non era una religione, ma una confraternita di iniziati, divisa in vari livelli di iniziazione, che dalla religione orientale aveva preso a prestito soltanto il nome ed alcune simbologie esteriori. Quanto ai contenuti, scopi e modi operativi, niente accomuna il Mitra persiano e quello romano. L’istituzione mitraica romana in nessun modo può essere definita come una religione dedita al culto del sole. Sarebbe come dire che la massoneria moderna è una religione dedita al culto del Grande Architetto dell’Universo.

Il paragone con la massoneria aiuta a capire che genere di istituzione fosse quella mitraica. Si tratta, infatti, di istituzioni sostanzialmente simili negli aspetti essenziali. Agli adepti della massoneria non viene richiesto di professare una particolare religione, ma soltanto di credere nell’esistenza di un’Entità superiore, comunque definita. Questa entità viene rappresentata nei templi massonici (che per inciso hanno straordinari punti di similitudine con i mitrei romani, e sono popolati di divinità pagane, come Ercole, Minerva e Venere) con un sole inserito in un triangolo e con il nome di Grande Architetto dell’Universo, che, guarda caso, è lo stesso che i pitagorici attribuivano al Sole. Nei templi vengono effettuati cerimoniali e rituali di iniziazione e di apertura/chiusura “lavori”, mai, però, a carattere religioso. La religione è espressamente bandita dai templi massonici ed ogni adepto, nella sua vita privata, è libero di professare il credo che più gli aggrada.

Che ci sia una qualche connessione fra mitraismo e massoneria è tutt’altro che improbabile, dal momento che ci sono profonde similitudini nell’architettura e nelle decorazioni dei rispettivi templi, nei simbolismi, nei rituali e così via; ma non è materia che possa essere trattata in questa sede. Il paragone è stato introdotto al solo scopo di far capire quale tipo di istituzione fosse il mitraismo, che non era una religione dedita al culto di una qualche specifica divinità, ma una associazione segreta di mutua assistenza, i cui membri, nella loro vita pubblica, erano liberi di venerare qualsiasi divinità.

E’ l’unica chiave di lettura che consenta di capire e conciliare le innumerevoli contraddizioni ed incongruenze, cui ci si trova confrontati quando si voglia intendere il mitraismo come una religione.

Che il mitraismo non fosse una vera e propria religione è provato anche, come vedremo in seguito, dalle attività in campo religioso dei suoi adepti, fra cui lo stesso Giuliano. Egli fece costruire un mitreo nel suo palazzo, ma non vedeva nessuna delle divinità venerate nell’impero come “concorrente” di Mitra; si adoperò anzi in ogni modo perché tutte avessero pari dignità e rispetto. Questo era assolutamente tipico della filosofia dell’organizzazione mitraica, come viene spiegato approfonditamente nell’opera “Saturnalia”, composta intorno al 430 (ben dopo l’abolizione del paganesimo, quindi) dall’eminente scrittore Macrobio, supposto pagano.

In essa il senatore Pretestato, Pater Patrum del culto mitraico (la massima carica dell’organizzazione), in amabile conversazione con i grandi senatori mitraici Simmaco e Nicomaco Flaviano, si dilunga a spiegare come tutte le divinità pagane non siano altro che diverse manifestazioni, o anche diverse denominazioni, di un unico Ente superiore, rappresentato dal Sole, il Grande Architetto dell’Universo. “Paganesimo monoteista” l’ha definito qualcuno, mentre altri parlano genericamente di sincretismo religioso. In effetti tutte le religioni avevano pari dignità nei mitrei, dove comparivano le immagini delle principali divinità pagane ed i cui adepti si professavano pubblicamente devoti alle più disparate divinità, ivi comprese quella cristiana ed ebraica.

In quanto mitraico, Giuliano condivideva questa filosofia. Il grande ideale che egli sognò di realizzare era perfettamente in linea con la filosofia sincretistica e tollerante del Sol Invictus Mitra.

Egli progettò, infatti, di fondere tutte le confessioni dell’impero in un’unica super religione, retta da una casta sacerdotale e da una liturgia sincretistica unificate.

Egli cominciò con il richiamare dall’esilio e reinsediare nelle loro sedi i vescovi ortodossi allontanati dal suo predecessore, l’ariano Costanzo; ma contemporaneamente pubblicò un editto di restituzione dei beni e della libertà di culto per il paganesimo. Poi si dedicò alla riorganizzazione delle gerarchie dei sacerdoti pagani, sul modello dell’organizzazione sacerdotale cristiana. Per ogni provincia creò un gran sacerdote, non solo per il culto imperiale, ma anche per il complesso di tutti i culti tributati agli dei, compreso quello cristiano. Di questi provvedimenti sono state tramandate varie lettere di Giuliano, che appaiono quasi delle vere e proprie encicliche, o lettere pastorali. In esse l’imperatore si occupava di reclutamenti, consuetudini di vita, formazione e trattamento economico dei sacerdoti, del servizio divino, che doveva essere tenuto tre volte al giorno, della fondazione di case per le vergini dedite alla vita ascetica (conventi, in pratica), e di ospizi. Inoltre Giuliano fece redigere opuscoli informativi per sacerdoti e libri di istruzione per l’insegnamento religioso.

Questo era il grande progetto di Giuliano che, stando all’anonimo estensore cristiano della leggenda sulla sua morte, sarebbe stato sconfitto dal “Galileo”, per mezzo di una lancia persiana.

Questo stesso progetto trovò invece pratica attuazione 27 anni dopo la morte di Giuliano, ad opera dell’imperatore Teodosio che nel 392 emanò un decreto che aboliva ufficialmente il paganesimo ed imponeva a tutti i sudditi dell’impero di professare la religione cristiana di Roma. Dobbiamo concludere che il “Galileo” abbia trionfato, dunque? Sembrerebbe proprio di sì. Ma a ben guardare la religione che viene professata in suo nome assomiglia in modo impressionante a quella super religione vagheggiata da Giuliano, che doveva unificare tutti i culti professati nell’impero.

Anche l’ideale di Giuliano, quindi, alla fine ha trionfato. Quello che era risultato perdente (ma forse la storia sarebbe andata diversamente, se l’ultimo imperatore “pagano” avesse avuto più tempo) era soltanto il metodo attraverso cui egli si illudeva di poter realizzare quell’ideale, e cioè attraverso la tolleranza reciproca. Teodosio, invece, aveva capito che l’unico modo per arrivarci era l’intolleranza. I templi pagani vennero chiusi o distrutti ed ogni forma di culto pagano proibita; ma simboli, rituali, usanze, festività ed in molti casi anche lo stesso clero vennero assorbiti in toto nel cristianesimo.

La religione cristiana si autoproclama monoteista, ma al di là delle dichiarazioni di principio non è più monoteista di quanto lo fosse il mitraismo. L’Ente Supremo, infatti, è costituito in realtà da una Trinità, costituita da un Dio Padre, eterno, onnipotente, onnipresente, creatore di tutte le cose; dal suo Figlio unigenito, che ha iniziato ad esistere incarnandosi nel ventre di una donna, per opera di un terzo elemento, non ben definito, lo Spirito Santo. Una cosa che riflette in maniera lampante la concezione pagana, è il fatto che il Figlio è salito al “cielo” con il suo stesso corpo umano, e si trova lì da qualche parte in carne ed ossa. Non può sfuggire la similitudine con la concezione mitraica di un ente supremo, rappresentato dal sole e dal suo inviato in terra Mitra, incarnatosi anch’egli in una donna e salito al cielo dopo aver compiuto la sua missione.

Al di sotto di questa Trinità c’è poi tutta una pletora di vere e proprie “divinità” minori, fra cui primeggia in modo assoluto la Madonna, le quali hanno sostituito a tutti gli effetti altrettante divinità pagane, di cui hanno spesso assorbito simbolismi e funzioni.

Alla Madonna e ai santi

Vengono erette chiese e santuari e la maggior parte dei fedeli si rivolgono direttamente ad essi, non certo all’Ente Supremo, per ottenere grazie e favori, allo stesso modo in cui i fedeli pagani si rivolgevano alle varie divinità minori perché intercedessero presso il padre degli dèi. Ogni categoria umana, nel paganesimo, aveva una sua divinità protettrice, come ogni categoria umana, nel cristianesimo, ha un suo santo protettore.

Il Cristianesimo ha poi ereditato in massa simboli e festività tipiche del mitraismo. Il giorno sacro al sole è diventato la domenica, sacra al Signore. Il Natalis Solis Invicti è diventato il Natale di Gesù. Il simbolo del sole è onnipresente in tutte le chiese cattoliche (basti pensare all’ostensorio) e nelle immagini di Dio e dei santi, al punto che se un ipotetico archeologo venuto da un altro mondo dovesse giudicare il cristianesimo soltanto dalle immagini e simbolismi che compaiono nelle chiese, dovrebbe forzatamente concludere che si tratta di una religione dedita al culto del sole. Si tratta, in ogni caso, soltanto di immagini esteriori, perché a livello dottrinale e liturgico ha integrato un gran numero di elementi giudaici.

In conclusione, il cristianesimo ha incorporato, rielaborandoli ed armonizzandoli in una cornice dottrinale unitaria, sincretistica, gli elementi essenziali delle maggiori religioni professate nell’impero romano, realizzando così, per altra via, il sogno di Giuliano.

Chi ha vinto, dunque, Giuliano o il “Galileo”? La risposta non può essere che una sola: entrambi. Vedremo fra poco, infatti, che mitraismo e cristianesimo non erano nemici giurati e neppure antagonisti, come ritenuto da molti storici. Erano due facce di una stessa medaglia, entrambi funzionali allo stesso scopo e cioè al successo della più grande, ardita e fortunata cospirazione dell’intera storia umana.

Mitra e Gesù, due facce della stessa medaglia

Nel 384 d.C. moriva a Roma il senatore Vettio Agorio Pretestato, ultimo papa (acronimo di pater patrum) di quello che impropriamente viene definito “culto” di Mitra.

Il suo nome e le sue varie cariche religiose e politiche sono incisi sul basamento della facciata della Basilica di San Pietro, in Vaticano, insieme ad una lunga lista di altri senatori romani, stilata fra il 305 ed il 390.

La cosa che li accomuna è che sono tutti patres mitraici; e ben nove di essi rivestono il titolo supremo di Pater Patrum, a riprova del fatto che era qui, nel Vaticano, che si trovava la sede del capo supremo dell’organizzazione mitraica, fianco a fianco, se non addirittura l’una dentro l’altra, con la Basilica fatta erigere nel 320 dall’imperatore Costantino.

Per quasi settant’anni i capi supremi di due “religioni” che si è sempre voluto far apparire concorrenti ed in aspro conflitto fra loro, hanno convissuto pacificamente ed in perfetta armonia nella stessa sede. Quanto fosse pacifica la convivenza è provato dal fatto che fu lo stesso Pretestato, nel 367, in qualità di Prefetto dell’Urbe, a confermare sul trono di Pietro il vescovo Damaso.

Pretestato affermava che avrebbe volentieri accettato di farsi battezzare, se gli avessero offerto la cattedra di Pietro. Quel che successe alla sua morte, invece, fu esattamente il contrario. Il titolo di Pater Patrum ricadde (oggi si direbbe per default) sul vescovo Siricio, che fu il primo nella storia della Chiesa ad assumere l’appellativo di “papa”. Ed insieme ad esso anche tutta una serie di altre prerogative, titoli, simbologie e beni materiali passarono in massa dal mitraismo al cristianesimo.

Per capire quello che appare come un vero e proprio “passaggio di consegne” fra il papa mitraico e quello cristiano, bisogna risalire all’anno prima. Nel 383, infatti, il senato romano aveva votato a stragrande maggioranza l’abolizione del paganesimo nell’impero d’occidente. Un voto che ha lasciato perplessi gli storici, che si sono spesso domandati se fosse dovuto a intimidazioni esercitate dall’imperatore Teodosio o a che altro.

E’ opinione comune fra di essi, infatti, che il senato romano fosse a quell’epoca in maggioranza pagano. Anzi, si trova spesso scritto che proprio il senato costituiva l’ultima roccaforte di resistenza del paganesimo contro il cristianesimo trionfante. Un’opinione che contrasta in modo stridente con ripetute dichiarazioni di San Ambrogio, il quale in quegli stessi anni affermava che i cristiani erano in maggioranza nel senato; affermazioni cui gli storici non hanno mai dato alcun credito, ritenendole inattendibili. Chi ha ragione, Ambrogio o gli storici moderni?

Certamente dobbiamo ritenere del tutto inverosimile che il vescovo di Milano, che apparteneva ad una grande famiglia senatoriale e seguiva attentamente le questioni romane, si sbagliasse su una questione del genere. D’altro canto, però, non possiamo neppure biasimare gli storici, dal momento che prove documentali ed archeologiche confermano che la grande maggioranza dei senatori romani erano allora “patres” del Sol Invictus Mitra, e quindi, secondo l’opinione universalmente accettata, dichiaratamente pagani.

Quello che nessuno storico ha mai capito, però, o meglio non ha mai voluto capire nonostante numerose evidenze storiche, è che le due condizioni, di adepto del mitraismo e di cristiano (non battezzato), non erano affatto incompatibili.

L’esempio più lampante è costituito dall’imperatore Costantino, ma se ne potrebbe compilare una sostanziosa lista. Costantino era adepto del Sol Invictus Mitra e mai lo rinnegò, anche quando si proclamava “servo di Dio” e affermava di essere “il vescovo costituito da Dio per l’umanità fuori dalla Chiesa”. Il suo biografo Eusebio lo definisce addirittura “il novello Mosè” e “una sorta di vescovo universale”.

Ma Costantino si fece battezzare solo in punto di morte, continuò per anni a battere monete con simboli mitraici da un lato, cristiani dall’altro e innalzò a Costantinopoli una statua colossale di se stesso, con simboli mitraici.

D’altra parte gli stessi senatori mitraici avevano in maggioranza mogli e figlie cristiane, come testimoniato, fra gli altri, da San Girolamo. Un esempio illustre è quello di San Ambrogio, ritenuto dagli storici inizialmente pagano, figlio di un pagano mitraico, il prefetto delle Gallie Ambrogio, nonostante non ci sia alcun dubbio che la sua famiglia fosse cristiana e vivesse in ambiente profondamente cristiano.

Da bambino, infatti, Ambrogio amava giocare a fare il vescovo e nel 353 sua sorella Marcellina ricevette il velo delle vergini consacrate dal papa Liberio in persona, nella basilica di San Pietro. Formalmente, però, egli rimase “pagano” fino al momento stesso in cui fu designato vescovo di Milano; fu battezzato, infatti, soltanto quindici giorni prima di essere consacrato vescovo.

Il fatto è che a quell’epoca i cristiani destinati alla carriera politica (Ambrogio era governatore del Nord Italia al momento della nomina a vescovo) erano battezzati soltanto in punto di morte, oppure quando, per una qualche ragione, decidevano di abbracciare la carriera ecclesiastica. Era la prassi, allora. Il senatore Nectarius, per esempio, che era stato designato vescovo di Antiochia dal concilio di Costantinopoli del 381, fu costretto a posporre la cerimonia della sua consacrazione perché dovette prima provvedere a quella del proprio battesimo.

Subito dopo il voto di abolizione del paganesimo, i senatori romani abbracciarono in massa la fede cristiana (pur continuando a mantenere, in molti casi, mitrei privati), a cominciare da quel Simmaco, pater mitraico, che è passato alla storia per la sua strenua quanto vana difesa della tradizione “pagana”, di fronte all’imperatore Valentiniano. Pochi anni dopo, infatti, il cristianissimo imperatore Teodosio, fanatico persecutore di ogni eresia e residuo pagano, lo gratificò elevandolo agli onori del consolato.

E’ possibile, ci si chiederà, che una persona potesse aderire contemporaneamente a due diverse religioni? Qui sta il punto essenziale. Si è già visto come, per un evidente quanto incredibile equivoco (ma forse non si sbaglierebbe di molto se si parlasse di deliberata mistificazione), il cosiddetto “culto” del Sol Invictus Mithra, è sempre stato ritenuto una “religione”, sorta in parallelo al cristianesimo e in concorrenza con esso. C’è addirittura chi ritiene che questa “religione” fosse talmente radicata e diffusa nella società romana, che soltanto per un soffio perse la gara con il cristianesimo. Più moderatamente, il Renan affermava che se per un qualche accidente il cristianesimo fosse abortito nel corso del quarto secolo, il mondo sarebbe stato mitraico.

E’ un chiaro riconoscimento del potere e del capillare controllo che l’organizzazione mitraica aveva conseguito nel corso del quarto secolo sull’intera società romana. Organizzazione segreta di tipo esoterico, non certo religione. Nonostante il parere del Renan, infatti, non si riesce proprio ad immaginare in che cosa potesse consistere una “religione” mitraica romana, dal momento che gli adepti dell’organizzazione si proclamavano pubblicamente fedeli o sostenitori di un gran numero di altre divinità, che comprendevano praticamente l’intero olimpo pagano.

La maggioranza degli storici concordano sul fatto che gli adepti mitraici erano, a modo loro, monoteisti. Quello che dimenticano di sottolineare è che, grazie alla loro particolare filosofia sincretistica, essi “infiltrarono” e si impadronirono del culto (e delle relative prebende) di tutte le divinità pagane.

Infatti tutte le “grotte” mitraiche ospitavano (esattamente come i templi massonici moderni) una schiera di divinità pagane, come Saturno, Atena, Venere, Ercole e così via e gli adepti di Mitra (che fra l’altro erano esclusivamente uomini, essendo le donne categoricamente escluse dall’organizzazione) nella loro vita pubblica esercitavano la funzione di sacerdoti al servizio non soltanto del Sole, che era venerato in templi pubblici ben distinti dai mitrei (che erano invece minuscoli vani sotterranei accessibili solo agli adepti, i quali vi tenevano riunioni ammantate dal più stretto segreto), ma anche di altre divinità romane.

Questo è provato al di là di ogni possibile dubbio proprio dalle iscrizioni che si trovano sul basamento della Basilica di S. Pietro. Scorrendo la lista dei senatori ivi elencati, infatti, si scopre che, oltre al titolo di “patres” del Sol Invictus Mitra, essi ricoprivano anche una lunga serie di cariche nel culto di altre divinità, come sacerdos, hieroceryx, hierophanta e archibucolus di Bronto o di Ecate, Iside e Libero, maior augur, quindecimvir sacris faciundis e per finire anche pontifex di vari culti pagani, e naturalmente erano responsabili del collegio delle vestali e del sacro fuoco di Vesta. Non c’era nel Senato alcuna manifestazione di culto legato alla tradizione pagana che non venisse celebrata da un senatore mitraico. E quello stesso senatore, il più delle volte, aveva alle spalle una famiglia profondamente cristiana. Ed in ogni caso abbracciò immediatamente il cristianesimo non appena il paganesimo fu abolito.

Sorge allora spontanea una domanda: i senatori mitraici erano soltanto pagani o anche cristiani?

Su questo punto le evidenze in nostro possesso sono piuttosto ambigue. Anche il carattere dello stesso Mitra, come viene dipinto dagli scrittori cristiani, è assolutamente ambiguo. Fra lui e Gesù esiste una lunga serie di analogie: Mitra era nato in una stalla, il 25 Dicembre, da una madre vergine, circondato da pastori che portavano doni. Era venerato nel giorno dedicato al sole, la domenica. Attorno alla testa aveva un’aureola. Celebrò un’ultima cena insieme ai suoi seguaci più fedeli, prima di far ritorno al a suo padre. Si diceva che non fosse morto, ma che fosse asceso al cielo, da dove sarebbe tornato alla fine del mondo, per resuscitare i morti e giudicarli, mandando i buoni in paradiso e i cattivi all’inferno. Garantiva ai suoi fedeli l’immortalità, conseguita attraverso il battesimo.

Gli adepti di Mitra, quindi, credevano come i cristiani nell’immortalità dell’anima, nel giudizio universale, nella resurrezione dei morti e nella fine del mondo. Celebravano la morte di un salvatore che era risorto una domenica. Celebravano una cerimonia analoga alla Messa cristiana, durante la quale consumavano pane consacrato e vino in memoria dell’ultima cena di Mitra. E durante la cerimonia cantavano inni, suonavano campanelli, accendevano ceri e usavano acqua consacrata.

Essi condividevano con i cristiani una lunga serie di altre credenze e pratiche rituali, al punto da essere praticamente indistinguibili da essi, agli occhi dei pagani ed anche di molti cristiani L’esistenza di una sotterranea connessione tra il cristianesimo ed il mitraismo fin dai primi tempi è ammessa anche dai padri della Chiesa. Tertulliano scrive che i pagani “…credono che il Dio dei cristiani è il Sole, perché è noto che noi preghiamo rivolti verso il sole nascente e che nel giorno del sole facciamo festa (Tertulliano, Ad Nationes, 1, 13). Egli cerca di giustificare la sostanziale identità fra le due “religioni” agli occhi dei fedeli cristiani, attribuendola al fatto che satana avrebbe plagiato i rituali più sacri e le credenze della religione cristiana. Costantino credeva che Gesù Cristo ed il Solo Invictus Mitra fossero entrambi aspetti della stessa divinità superiore. Certamente egli non era il solo a nutrire questa convinzione. I neoplatonici sostenevano che il mitraismo rappresentava un “ponte” fra paganesimo e cristianesimo. Gesù era spesso chiamato con il nome Sol Iustitiae ed era rappresentato con statue aventi le sembianze del giovane Apollo (curiosamente anche Michelangelo, nel grandioso affresco del Giudizio Universale della cappella Sistina, ha rappresentato Gesù con il volto dell’Apollo del Belvedere). Clemente di Alessandria descrive Gesù alla guida del carro del sole attraverso il cielo, ed un mosaico del quarto secolo, in Vaticano, lo mostra sul carro del sole, mentre ascende al cielo. Su alcune monete del quarto secolo lo stendardo cristiano riporta la scritta “Sol Invictus”. Un larga parte della popolazione romana pensava che il Cristianesimo ed il culto del sole fossero intimamente collegati, se non proprio la stessa cosa.

Anche dopo l’abolizione del paganesimo, i romani continuarono a lungo a venerare entrambi, sia

Cristo che il Sole. Nel 410 d.C. papa Innocenzo autorizzò la ripresa di cerimonie in onore del sole, sperando in questo modo di scongiurare il sacco di Roma da parte dei Visigoti di Alarico. E ancora nel 460 papa Leone il Grande scriveva: “… molti cristiani, prima di entrare nella basilica di San Pietro, si rivolgono verso il sole e si inchinano in suo onore”. Il vescovo di Troy continuò a professare apertamente il culto del sole anche durante il suo episcopato. Un altro notevole esempio in questo senso è dato da Sinesio di Cirene, un discepolo della famosa filosofa neoplatonica Ipazia, che fu trucidata nel 415 ad Alessandria d’Egitto. Sinesio, non ancora battezzato, fu eletto vescovo di Tolemaide e vescovo metropolitano di Cirenaica, ma accettò la carica soltanto a condizione di non dover ritrattare le sue convinzioni neoplatoniche o rinunciare al culto del sole. Ancor oggi il simbolo del sole è universalmente presente in tutte le chiese ed in tutti gli oggetti di culto cristiani.

Alla luce di questi fatti come dobbiamo considerare la posizione dell’istituzione mitraica nei confronti del cristianesimo? Erano concorrenti o cooperatori? Amici o nemici? Forse la migliore indicazione ci è fornita dalle monete che Costantino fece coniare fino al 320 d. C., con simboli cristiani su un lato, mitraici sull’altro. E’ possibile che Cristo e Mitra fossero due facce di una stessa medaglia?

Le origini del Mitraismo e del Cristianesimo

Per spiegare la stretta relazione esistente fra Cristianesimo e Mitraismo dobbiamo risalire alle loro origini.

Per universale consenso, il cristianesimo come noi lo conosciamo è una creazione di San Paolo, il fariseo che fu inviato da Gerusalemme a Roma nel 61 circa, dove fondò la prima comunità cristiana della capitale. La religione predicata a Roma da Paolo era assai diversa da quella predicata da Gesù in Palestina e praticata da Giacomo il Giusto, l’allora capo della comunità cristiana di Gerusalemme. La predicazione di Gesù era in linea con il modo di vivere e pensare della setta giudaica degli Esseni. I contenuti dottrinali del cristianesimo affermatosi a Roma alla fine del primo secolo, invece, sono straordinariamente vicini a quelli della setta dei farisei, a cui Paolo apparteneva.

Paolo fu condannato a morte probabilmente nel 67 da Nerone, insieme alla maggior parte dei suoi discepoli. La comunità cristiana di Roma fu decimata dalla persecuzione neroniana. Non abbiamo alcuna informazione su quel che accadde in seno a questa comunità nei successivi 30 anni; un black out di notizie che lascia alquanto perplessi, perché sappiamo per certo che durante quel periodo a Roma dovette succedere qualcosa di molto importante. Infatti, alcuni dei più eminenti cittadini della capitale furono convertiti al cristianesimo, come il console Flavio Clemente, cugino dell’imperatore Domiziano. Inoltre la chiesa di Roma assunse una struttura monarchica e impose la sua leadership su tutte le comunità cristiane dell’impero, che dovettero uniformarsi al modello ed alle credenze della chiesa romana. Questo è provato al di là di ogni dubbio da una lunga lettera di papa Clemente ai Corinzi, scritta verso la fine del regno di Domiziano, in cui è chiaramente affermata la supremazia della Chiesa di Roma.

Ciò significa che durante gli anni del black out qualcuno che aveva accesso alla famiglia imperiale aveva risollevato le sorti della comunità cristiana romana al punto da consentirle di imporre la propria autorità su tutte le altre comunità cristiane dell’impero. Ed era “qualcuno” che conosceva perfettamente la dottrina ed il pensiero di Paolo, 100% farisaico.

Anche l’organizzazione mitraica era nata nello stesso periodo e nello stesso ambiente. Data la scarsità di informazioni scritte su questo argomento, l’origine e la diffusione del culto di Mitra ci sono note quasi esclusivamente grazie ai reperti archeologici (resti di mitrei, scritte dedicatorie, iconografie e statue del dio, rilievi, pitture, mosaici ecc.) che sono stati rinvenuti in abbondanza in tutto l’impero romano. Queste testimonianze archeologiche provano in maniera praticamente certa che, a parte il nome comune, non c’era alcuna relazione fra il culto di Mitra romano e la religione orientale da cui si suppone (o meglio si postula) che sia derivato. In tutto il mondo persiano, infatti, non è mai stato trovato nulla di simile ad un mitreo romano.

Quasi tutti i monumenti mitraici rinvenuti possono essere datati con relativa precisione, dal momento che vi si trovano iscrizioni dedicatorie. Pertanto, tempi e circostanze della diffusione del culto del Sol Invictus Mitra (questi tre nomi compaiono quasi sempre assieme in tutte le iscrizioni, pertanto non c’è dubbio che si riferiscono alla stessa ed unica istituzione) ci sono noti con ragionevole precisione e certezza. Conosciamo anche il nome, la professione e le responsabilità di un gran numero di suoi membri.

Il primo mitreo di cui si abbia evidenza fu costruito a Roma, al tempo di Domiziano, e ci sono precise indicazioni che fosse frequentato da persone vicine alla famiglia imperiale, in particolare liberti giudaici.

Il mitreo, infatti, fu dedicato da un certo Tito Flavio Igino Efebiano, un liberto dell’imperatore Tito Flavio, pertanto quasi certamente un giudeo romanizzato. Da Roma l’organizzazione mitraica si diffuse, nel corso del secondo secolo, in tutto l’impero occidentale.

C’è un terzo avvenimento, accaduto in quello stesso periodo ed in qualche modo collegato alla famiglia imperiale ed agli ambienti giudaici, a cui gli storici non hanno mai prestato particolare attenzione: l’arrivo a Roma di un importante gruppo di persone, 15 alti sacerdoti giudaici, con le loro famiglie e parenti. Appartenevano alla classe sacerdotale che aveva governato Gerusalemme per mezzo millennio, fin dal ritorno dall’esilio babilonese, quando 24 famiglie sacerdotali, sotto gli auspici di Esdra, avevano stipulato fra loro un accordo e creato un’organizzazione segreta con lo scopo di assicurare le proprie fortune, per mezzo della “proprietà” esclusiva del Tempio e l’esclusiva amministrazione del sacerdozio.

La dominazione romana della Giudea era stata segnata da forti tensioni sul piano religioso, che avevano provocato una serie di rivolte, l’ultima delle quali, nel 66 d.C., fu fatale per la nazione giudaica e per la stessa famiglia sacerdotale. Con la distruzione di Gerusalemme da parte di Tito Flavio, nel 70 d.C., lo strumento principale del potere della famiglia, il Tempio, fu raso al suolo, e mai più ricostruito, ed i sacerdoti furono uccisi a migliaia.

Ci furono dei superstiti, naturalmente, in particolare un gruppo di 15 alti sacerdoti che erano passati dalla parte dei romani, consegnando a Tito il tesoro del tempio, e per questa ragione erano stati reintegrati nelle loro proprietà e gli era stata concessa la cittadinanza romana. Essi avevano poi seguito Tito a Roma, dove apparentemente scomparvero per sempre dalla scena della storia, a parte quello che indubbiamente appare come la personalità più forte di quel gruppo, Giuseppe Flavio.

Giuseppe era un sacerdote che apparteneva alla più illustre delle 24 famiglie sacerdotali giudaiche. Al tempo della rivolta contro Roma aveva ricoperto un ruolo di primo piano nelle tormentate vicende della Palestina. Inviato dal Sinedrio quale governatore della Galilea, egli era stato il primo a combattere contro le legioni del generale romano Tito Flavio Vespasiano, che aveva ricevuto da Nerone l’incarico di reprimere la rivolta. Barricato nella fortezza di Jotapata egli resistette valorosamente all’assedio delle truppe romane, ma alla fine dovette capitolare. Egli si arrese a condizione di poter parlare personalmente con Vespasiano (Guerra Giudaica, III, 8,9). Il loro incontro segnò una svolta nelle fortune di entrambi: Vespasiano qualche tempo dopo divenne imperatore, mentre Giuseppe non soltanto ebbe salva la vita, ma fu “adottato” nella famiglia imperiale ed assunse il nome di Flavio. In seguito ottenne la cittadinanza romana, una villa patrizia a Roma, una rendita annua a spese dello stato ed enormi proprietà in Palestina. Il prezzo del suo tradimento (fu lui, probabilmente, che fornì a Vespasiano i mezzi economici per diventare imperatore).

I sacerdoti di questo gruppo avevano una cosa in comune fra loro: erano tutti traditori del loro popolo e quindi certamente non bene accetti in seno alle comunità giudaiche. Appartenevano tutti, però, ad una famiglia dalle tradizioni millenarie, erano legati fra loro dall’organizzazione segreta creata a suo tempo da Esdra e possedevano una specializzazione ed una esperienza unica nel gestire una religione e governare un paese tramite questa. I poveri resti della comunità cristiana romana, sopravvissuti alle persecuzioni neroniane, offrivano loro una splendida opportunità di mettere a frutto la loro millenaria esperienza e le loro notevoli sostanze.

Non sappiamo nulla della loro attività a Roma, ma ne abbiamo chiare indicazioni attraverso gli scritti di Giuseppe Flavio. Dopo alcuni anni, infatti, egli cominciò a scrivere la storia di quegli avvenimenti che lo avevano avuto protagonista, con l’intento, a quanto sembra, di giustificare il proprio tradimento e quello dei suoi compagni. Era stata la volontà di Dio, egli afferma, che lo aveva chiamato a costruire un Tempio Spirituale, al posto di quello materiale distrutto da Tito.

Queste parole certamente non erano rivolte ad orecchie giudaiche, ma cristiane. La maggior parte degli storici sono scettici sul fatto che Giuseppe fosse cristiano, ma ci sono forti elementi che lo confermano.

In un passo famoso del suo libro “Antichità Giudaiche” (il cosiddetto Testimonium Flavianum) egli dichiara di accettare due punti fondamentali, la resurrezione di Cristo e la sua identificazione con il messia delle profezie, che sono condizione necessaria e sufficiente, per un giudeo del suo tempo, per essere considerato cristiano. Le simpatie cristiane di Giuseppe traspaiono inoltre molto chiaramente da altri passi della stessa opera, nei quali egli parla con grande ammirazione di Giovanni Battista e del fratello di Gesù, Giacomo.

Giuseppe Flavio e San Paolo

Le argomentazioni usate da Giuseppe Flavio per giustificare il proprio tradimento e quello dei suoi fratelli, sembrano riecheggiare le parole di San Paolo. I due sembrano essere in sintonia per quel che riguarda il loro atteggiamento nei confronti del mondo romano. Paolo considerava suo compito liberare la chiesa di Gesù dalle strettoie del giudaismo e dalla dipendenza dal territorio palestinese, e di renderla universale, legandola a Roma. Essi sono in sintonia anche su altri punti fondamentali, come ad esempio sul fatto che entrambi dichiarano di credere nella dottrina dei farisei, che è poi quella che è stata pienamente recepita dalla chiesa di Roma.

Ci sono sufficienti indicazioni storiche per concludere con certezza che i due si conoscevano ed erano legati da una profonda amicizia. Negli Atti degli Apostoli si legge che, dopo essere tornato a Gerusalemme, Paolo fu condotto di fronte ai sommi sacerdoti ed al Sinedrio per essere giudicato.

(Atti 22, 30). Egli si difese dicendo:

“Fratelli, io sono un fariseo, figlio di farisei; io sono chiamato in giudizio a motivo della speranza nella resurrezione dei morti”. Appena egli ebbe detto ciò scoppiò una disputa tra i farisei ed i sadducei e l’assemblea si divise. I sadducei infatti affermano che non c’è resurrezione, né angeli, né spiriti; i farisei, invece, professano tutte queste cose. Ne nacque allora un grande clamore ed alcuni scribi del partito dei farisei, alzatisi in piedi protestavano dicendo: “Non troviamo nulla di male in quest’uomo. E se uno spirito o un angelo gli avesse parlato davvero?” La disputa si accese a tal punto che il tribuno, temendo che Paolo venisse linciato da costoro, ordinò che scendesse la truppa a portarlo via di mezzo a loro e ricondurlo nella fortezza.” (Atti, 23; 1-10)

Giuseppe era un sacerdote di alto rango e a quel tempo si trovava a Gerusalemme; era certamente presente a quell’assemblea. Egli aveva aderito alla setta dei farisei all’età di 19 anni, pertanto doveva essere fra quei sacerdoti che si alzarono in difesa di Paolo. L’apostolo fu consegnato al governatore romano Felice, che lo tenne agli arresti per qualche tempo, fino a che fu inviato a Roma, insieme ad altri prigionieri (Atti 27, 1), per essere giudicato dall’imperatore, al quale Paolo, in qualità di cittadino romano, si era appellato. A Roma egli passò due anni in prigione.

(Atti, 28,29) prima di essere liberato, nel 63 o 64 d.C.

Nel sua autobiografia Giuseppe scrive:

“Tra i venticinque ed i ventisei anni mi imbarcai in un viaggio a Roma, per la seguente ragione. Durante il periodo in cui fu governatore della Giudea, Felice aveva mandato alcuni sacerdoti a Roma, per giustificarsi di fronte all’imperatore. Io li conoscevo come ottime persone, che erano state arrestate su accuse insignificanti. Siccome volevo studiare un piano per liberarli … mi imbarcai per Roma” (Vita, 3, 13).

In qualche modo Giuseppe riuscì a raggiungere Roma, dove strinse amicizia con un certo Alituro, un mimo giudeo che era molto apprezzato da Nerone. Tramite Alituro, egli fu presentato a Poppea, moglie dell’imperatore, e grazie a lei riuscì a far liberare i sacerdoti suoi amici (Vita 3, 16).

La coincidenza di date, fatti e persone coinvolte è assoluta, al punto che è impossibile sfuggire alla conclusione che Giuseppe venne a Roma, a suo rischio e spese, appositamente per liberare Paolo ed i suoi compagni, e che fu proprio grazie al suo intervento che l’apostolo fu rilasciato. Questo presuppone che i rapporti fra i due fossero molto più stretti che non una semplice conoscenza occasionale. Pertanto Giuseppe doveva conoscere del cristianesimo molto più di quanto traspare dai suoi scritti, e la sua conoscenza proveniva direttamente dagli insegnamenti di Paolo, di cui era verosimilmente un discepolo.

Quando Giuseppe tornò a Roma al seguito di Tito, nel 70 d.C., il suo maestro era stato giustiziato, insieme a una gran parte dei cristiani che lui stesso aveva convertito, la Giudea era stata cancellata dal novero delle nazioni, il Tempio distrutto, la famiglia sacerdotale quasi sterminata, e la sua stessa reputazione macchiata dall’onta del tradimento. Doveva essere animato da un forte risentimento e da un irreprimibile desiderio di rivincita e vendetta. Inoltre doveva sentirsi in carico dei destini degli umiliati rimasugli di una delle più grandi famiglie del mondo di allora, i 15 alti sacerdoti giudaici che condividevano le sue stesse condizioni.

Ci sono indizi secondo cui Giuseppe Flavio, senza dubbio la personalità più forte ed autorevole di quel gruppo di persone, presiedette una riunione durante la quale quei sacerdoti esaminarono la situazione della famiglia sacerdotale e decisero una strategia per risollevare le sue fortune.

Giuseppe lucidamente concepì un piano che in quelle circostanze sarebbe apparso a chiunque assolutamente folle. Quell’uomo, seduto fra le rovine fumanti di quella che era stata la sua patria, circondato da pochi sopravvissuti, umiliati e demoralizzati, rifiutati dai loro stessi concittadini, progettò nientemeno che di conquistare quell’enorme potentissimo impero che lo aveva sconfitto, e di insediare i propri discendenti e quelli degli uomini intorno a lui quale classe dirigente di quello stesso impero.

Il primo passo di questa strategia era di assumere il controllo della neonata religione cristiana e trasformarla in una solida base di potere per la famiglia sacerdotale. Quei sacerdoti erano venuti a Roma al seguito di Tito, di cui godevano la protezione, ed erano provvisti di grandi mezzi economici. Non dovettero incontrare eccessive difficoltà nell’assumere la guida del piccolo gruppo di cristiani che erano sopravvissuti alle persecuzioni neroniane, tanto più che erano legittimati dai precedenti rapporti di Giuseppe Flavio con Paolo.

Erano trascorsi soltanto sei anni da quando Giuseppe aveva ottenuto la liberazione di Paolo dalla prigione. L’apostolo doveva essere morto da non più di tre anni. Giuseppe deve essersi sentito moralmente obbligato a continuare l’opera del suo vecchio maestro, di cui conosceva perfettamente la dottrina; rendendosi conto del suo potenziale di propagazione nel mondo romano, si dedicò anima e corpo alla sua implementazione pratica, coadiuvato dai sacerdoti superstiti. Una volta ricreata una forte comunità cristiana nella capitale, che comprendeva addirittura alcuni membri della famiglia imperiale, non dovette essere difficile per quei sacerdoti imporre la propria autorità sulle altre comunità cristiane sparse per l’impero, prime fra tutte quelle che erano state create o catechizzate dallo stesso Paolo.

Giuseppe Flavio ed il Sol Invictus Mitra

Giuseppe Flavio sapeva fin troppo bene che una religione non ha futuro se non entra a far parte integrante di un sistema di potere politico. Era un concetto, per così dire, innato nel DNA dei sacerdoti di Giuda che religione e potere politico vivono in simbiosi, sostenendosi a vicenda. Non è immaginabile che egli pensasse che la nuova religione potesse diffondersi nell’impero indipendentemente, o addirittura in contrasto con il potere politico. Il suo obiettivo primario, pertanto, dovette essere quello di conquistare il potere politico. Grazie alla millenaria esperienza della sua famiglia ed alla sua stessa esperienza di vita, Giuseppe sapeva bene che il potere politico, specie in un organismo elefantiaco come l’impero romano, era basato sul potere militare, ed il potere militare su quello economico, a sua volta basato sulla capacità di influenzare e controllare le leve finanziarie del paese. Nel suo piano egli deve aver programmato che la famiglia sacerdotale assumesse prima o poi il controllo di queste leve. Allora l’impero sarebbe stato nelle sue mani e la nuova religione sarebbe stato lo strumento per controllarlo.

Ma qual era il piano di Giuseppe Flavio per realizzare questo ambizioso progetto? Non dovette inventare nulla di nuovo. Il modello era già lì, l’organizzazione segreta creata da Esdra al rientro dall’esilio babilonese, la quale aveva assicurato alla famiglia sacerdotale giudaica potere e prosperità per mezzo millennio. Dovette apportarvi soltanto alcuni ritocchi, per mimetizzare questa istituzione nel mondo pagano sotto le sembianze di una religione misterica, dedicata al dio greco Helios, il sole, per l’indubbia assonanza con il nome della divinità ebraica El, o El Elyon. Il dio fu presentato come invincibile, il Sol Invictus, per galvanizzare lo spirito dei suoi adepti, ed al suo fianco fu posto, come inseparabile compagno, una divinità solare di quella stessa Mesopotamia da dove gli ebrei avevano avuto origine, Mitra, l’inviato del Sole sulla terra per redimere l’umanità. E tutto attorno ad essi, nei mitrei, furono poste le statue di varie divinità pagane, Atena, Ercole, Venere e così via. L’insieme era un evidente riferimento a Dio Padre, ed al suo inviato sulla terra Gesù, circondati dai loro attributi di saggezza, forza, bellezza e così via, che era chiaramente comprensibile ad un cristiano, ma era perfettamente pagano agli occhi di un pagano.

Questa organizzazione non aveva alcun fine religioso: il suo unico scopo era preservare l’unione fra le famiglie sacerdotali e garantire loro sicurezza e prosperità, tramite il mutuo supporto ed una strategia comune intesa ad infiltrare tutte le posizioni di potere della società romana. I lavori che venivano svolti nei mitrei erano coperti dal più rigoroso segreto. Nonostante l’organizzazione mitraica abbia operato per tre secoli ed abbia avuto migliaia di adepti, molti dei quali eminenti letterati, non è giunta fino a noi neppure una parola, scritta direttamente da un suo membro, su quel che accadeva nel corso delle riunioni mitraiche, quali decisioni venivano prese e così via. Questo significa che fu sempre mantenuto il più rigoroso riserbo sui lavori che venivano svolti in un mitreo.

L’accesso all’organizzazione doveva essere riservato ai soli membri delle famiglie sacerdotali, almeno al livello operativo, quello decisionale, dal terzo grado in su (occasionalmente potevano essere affiliate nei primi due gradi persone non appartenenti a queste famiglie, come nel caso dell’imperatore Commodo). Questo sistema di reclutamento è perfettamente in linea con le evidenze storiche ed archeologiche in nostro possesso. Anche al culmine del suo potere e diffusione, il Sol Invictus Mitra appare una istituzione di élite, con un numero assai limitato di adepti. La maggior parte dei mitrei, infatti, erano stanze molto piccole, che non potevano ospitare più di una ventina di persone. Certamente, quindi, non era una religione di massa, ma un’organizzazione a cui potevano accedere soltanto i vertici delle forze armate e della burocrazia imperiale. Tuttavia non conosciamo assolutamente nulla della politica di reclutamento di questa istituzione. Non sappiamo se reclutasse i suoi membri fra gli alti ranghi della società romana, o se al contrario erano i membri di questa organizzazione che “infiltravano” tutte le posizioni di potere di questa società. Le evidenze storiche in nostro possesso favoriscono l’ipotesi che l’appartenenza a questa istituzione fosse riservata su base etnica. Per capire il suo successo, dobbiamo ritenere che l’accesso ad essa, almeno al livello operativo, fosse riservato ai discendenti di quel gruppo di sacerdoti giudaici che erano venuti a Roma al seguito di Tito, dopo la distruzione di Gerusalemme.

Il Sol Invictus Mitra conquista l’impero romano

Sia le fonti scritte che le testimonianze archeologiche confermano che da Domiziano in poi Roma rimase sempre la sede più importante del Sol Invictus Mitra, che si era saldamente installato nel cuore stesso dell’amministrazione imperiale, sia nel palazzo vero e proprio che nella guardia pretoriana. Da Roma l’organizzazione mitraica si diffuse immediatamente nella vicina Ostia, il porto con il più grande volume di traffico commerciale dell’intero Mediterraneo, dove confluivano merci da ogni parte dell’impero, per soddisfare l’insaziabile appetito della capitale. Nel corso del secondo e terzo secolo vi furono costruiti almeno una quarantina di mitrei, evidente dimostrazione che i membri dell’organizzazione mitraica avevano assunto il controllo delle attività commerciali del porto, sorgente di entrate incalcolabili e di grande potere economico.

Nel contempo l’istituzione mitraica si diffuse in tutto il resto dell’impero, in particolare in quello occidentale. Il primo mitreo di cui si abbia notizia al di fuori della cerchia romana fu costruito intorno al 110 d.C. in Pannonia, a Poetovio, il maggior centro doganale della regione ad opera dei funzionari della dogana. Quasi contemporaneamente sorse un mitreo presso la guarnigione militare di Carnutum, sempre in Pannonia e subito dopo in tutte le province danubiane (Rezia, Norico, Mesia e Dacia). Tra gli adepti di Mitra ritroviamo i funzionari delle dogane, che raccoglievano le gabelle poste su ogni genere di trasporto dall’Italia verso il Centro Europa e viceversa; i funzionari imperiali che controllavano i trasporti, la posta, l’amministrazione delle finanze e le miniere; ed infine gli ufficiali che comandavano le guarnigioni scaglionate lungo il confine. Contemporaneamente al bacino danubiano, sorsero numerosi mitrei anche nel bacino del Reno, a Bonn e Treviri. Seguirono poi la Britannia, la Spagna ed il Nord Africa, dove sorsero mitrei già nelle prime decadi del secondo secolo, sempre associati a centri amministrativi e guarnigioni militari.

Le evidenze archeologiche, quindi, dimostrano che nel corso del secondo secolo i membri del

Sol Invictus Mitra occuparono le principali posizioni dell’amministrazione pubblica, divenendo la classe dominante nelle province esterne dell’impero, soprattutto nell’Europa centrale e settentrionale. Abbiamo visto in precedenza che i membri del Sol Invictus Mitra avevano infiltrato anche la tradizionale religione pagana, assumendo il controllo del culto delle principali divinità, a cominciare dal Sole.

La mossa vincente, tuttavia, quella che rese irresistibile l’ascesa dell’istituzione mitraica, fu la presa di controllo dell’esercito. Giuseppe Flavio sapeva per esperienza personale che l’esercito poteva diventare l’arbitro del trono imperiale. Chiunque controllava l’esercito controllava l’impero.

L’obiettivo principale che egli fissò per l’organizzazione mitraica dovette essere quello di infiltrare l’esercito e assumerne il controllo.

Ed infatti ritroviamo mitrei in tutti i luoghi in cui erano stazionate delle guarnigioni militari. In poco meno di un secolo l’istituzione mitraica riuscì ad assumere il controllo di tutte le legioni stazionate nelle province esterne e lungo i confini, al punto che il “culto” del Sol Invictus Mitra è considerato dagli storici come la religione tipica dei soldati romani. Prima ancora che all’esercito, tuttavia, le attenzioni del Sol Invictus si erano rivolte alla guardia pretoriana, la guardia personale dell’imperatore. Non è un caso che la seconda iscrizione dedicatoria mitraica, in ordine di tempo, riguardi proprio un comandante del Pretorio e che la concentrazione di mitrei fosse particolarmente elevata nei pressi delle caserme dei pretoriani. L’infiltrazione di questo corpo militare deve essere iniziata già al tempo degli imperatori Flavii. Essi potevano contare sulla fedeltà incondizionata dei liberti giudaici, che dovevano tutto ad essi, la loro vita, la sicurezza ed il benessere. Gli imperatori romani erano riluttanti a mettere la propria sicurezza personale nelle mani di ufficiali provenienti dai ranghi del senato, il loro maggior opponente politico, pertanto i quadri della loro guardia personale furono formati principalmente da liberti e membri dell’ordine equestre (a cui fu sempre riservato il comando del Pretorio). Questo dovette favorire in modo particolare il Sol Invictus Mitra, che fece del Pretorio un suo feudo incontrastato fin dagli inizi del secondo secolo.

Una volta acquisito il controllo del pretorio e dell’esercito, il Sol Invictus Mitra fu in grado di mettere le mani anche sulla carica imperiale. Questo avvenne nel 193 d.C., quando Settimio Severo fu proclamato imperatore dall’esercito. Nato a Leptis Magna, nel Nord Africa, da una famiglia equestre di alti burocrati, egli era certamente un membro mitraico, avendo sposato Giulia Domna, sorella di un certo Bassiano, sacerdote del Sole Invitto. Da allora in poi la carica imperiale fu prerogativa del Sol Invictus Mitra e tutti gli imperatori furono proclamati tali (o rimossi) dall’esercito o dalla guardia pretoriana.

Giudicando in prospettiva, appare evidente che l’obiettivo finale della strategia concepita da Giuseppe Flavio era la completa sostituzione della classe dirigente dell’impero romano con membri del Sol Invictus Mitra. Questo obiettivo fu conseguito in meno di due secoli, grazie alla politica messa in atto dagli imperatori mitraici.

I ranghi dell’amministrazione imperiale romana provenivano quasi totalmente da nuove famiglie di origine ignota, che erano emerse nel corso del primo secolo e agli inizi del secondo, in antagonismo all’aristocrazia senatoriale, tradizionalmente contrapposta al potere dell’imperatore.

Questo gruppo di famiglie formavano il cosiddetto ordine equestre, che ben presto divenne un feudo incontrastato del Sol Invictus Mitra. Certamente la maggior parte delle famiglie dei 15 alti sacerdoti del seguito di Giuseppe Flavio, ricchi, con ottime relazioni interpersonali e forti del favore imperiale, dovettero confluire in questo ordine.

Gli imperatori mitraici provenivano tutti dall’ordine equestre e governarono in aperta opposizione al senato, umiliandolo, privandolo delle proprie prerogative e beni materiali e colpendolo fisicamente con l’esilio e la condanna capitale di un gran numero dei suoi membri più eminenti, tanto che nel corso del terzo secolo buona parte delle antiche famiglie senatoriali scomparvero dalla scena. Contemporaneamente essi cominciarono ad immettere nel senato un gran numero di famiglie equestri. Questa politica era stata iniziata da Settimio Severo e sviluppata da Gallieno (il quale, è bene ricordarlo, fu anche l’autore del primo editto di tolleranza nei confronti del Cristianesimo), che stabilì per decreto che tutti coloro che avevano ricoperto la carica di governatori di provincia o di prefetto del pretorio, incarichi riservati entrambi all’ordine equestre, entrassero di diritto a far parte del senato. Questo diritto fu poi esteso ad altre categorie di funzionari, grandi burocrati ed alti ufficiali dell’esercito (tutti membri dell’organizzazione mitraica, dobbiamo supporre). Il risultato finale fu che nel giro di alcuni decenni praticamente l’intera classe equestre transitò nei ranghi del senato, soppiantando le famiglie della originaria aristocrazia romana ed italica.

Nel frattempo la diffusione del cristianesimo attraverso l’impero procedeva speditamente.

Ovunque arrivassero i rappresentanti di Mitra, lì immediatamente sorgeva una comunità cristiana.

Alla fine del secondo secolo si contavano almeno quattro sedi episcopali in Britannia, sedici in

Gallia ed altrettante in Spagna e praticamente una in ogni grande città del Nord Africa e del Medio

Oriente. Nel 261 il Cristianesimo fu riconosciuto come religione lecita dal mitraico Gallieno e mezzo secolo dopo fu proclamata religione ufficiale dell’impero dal mitraico Costantino, sebbene fosse ancora largamente minoritaria nella società romana (i cristiani erano allora assai meno del 20% dell’intera popolazione). Da quel momento in poi fu gradualmente imposta alla popolazione dell’impero, con una serie di misure che culminarono, alla fine del quarto secolo, con l’abolizione delle religioni pagane e la “conversione” in massa del senato romano.

La situazione finale per quanto concerne le classi dirigenti dell’impero occidentale era allora la seguente: l’antica nobiltà di origine pagana era virtualmente scomparsa e la nuova nobiltà senatoriale, che si identificava con la classe dei grandi proprietari terrieri, era costituita in gran parte da ex membri del Sol Invictus Mitra. Sul piano religioso il paganesimo era stato completamente eliminato ed il cristianesimo era divenuto la religione di tutti gli abitanti dell’impero. Esso era controllato da gerarchie ecclesiastiche che provenivano quasi interamente dalla classe senatoriale ed erano dotate di immense proprietà fondiarie (fra l’altro esenti da tasse) e di poteri quasi reali nell’ambito delle proprie diocesi.

Le famiglie sacerdotali erano diventate padrone assolute di quello stesso impero che aveva distrutto Israele ed il tempio di Gerusalemme. Tutte le alte cariche dell’impero, sia civili che religiose, e tutta la sua ricchezza erano nelle loro mani, e la carica suprema, quella dell’imperatore, era stata assegnata in perpetuo, per diritto divino, alla più illustre delle tribù sacerdotali, la “Gens Flavia” (da Costantino in poi, infatti, tutti gli imperatori romani o pretendenti tali, nessuno escluso, avevano il prenome Flavio), verosimilmente discendente dallo stesso Giuseppe Flavio.

Tre secoli prima Giuseppe aveva scritto con orgoglio:

“La mia famiglia non è oscura, anzi è di discendenza sacerdotale; come presso ciascun popolo esiste un diverso fondamento della nobiltà, così da noi l’eccellenza della stirpe trova conferma nell’appartenenza all’ordine sacerdotale” (Vita 1,1).

Alla fine del quarto secolo i suoi discendenti potevano applicare con pieno diritto quelle stesse parole all’impero romano.

A quel punto l’istituzione del Sol Invictus Mitra non era più necessaria per assicurare le fortune della famiglia sacerdotale e fu liquidata. Era stata lo strumento della cospirazione più di successo dell’intera Storia.







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view post Posted on 1/1/2023, 12:39
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