I PASSAGGI SEGRETI

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view post Posted on 26/3/2016, 12:10
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Una delle antiche porte che conducevano ai sotterranei di Hogwarts .

Era stata murata , nella parte più antica del Cimitero di Hogsmeade,

che nella lingua nera degli Stregoni era detta Bet Rintrah ,




בית רינתרה


la Casa si Rintrah , Maestro del Sud .

Raven l' aveva finalmente ritrovata , dopo anni di ricerche .

Ora doveva entrare .

Sapeva che al di la' del muro c' era un vestibolo con una scala in ferro che scendeva , comunicante con il lungo tonnel che conduceva alle segrete di Hogwarts .

Bertrand Raven






Edited by IGNATZ DENNER - 30/3/2023, 15:06
 
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view post Posted on 26/3/2016, 12:51
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Anticamente i riti di passaggio erano fatti dentro i tunnel che attraversavano le città , la religione vincente ne aveva preso forma e gesti , ma rimanendo prigioniera dalla soppressione della Magia , e quindi prigioniera della Morte .

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Edited by IGNATZ DENNER - 30/3/2023, 14:58
 
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view post Posted on 27/3/2016, 14:02
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Esiste una città sotterranea , dove le cripte comunicano tra di loro,

ed esistono sale dove gli adepti al culto di Lucifero si riunivano ,

passando dai tunnel sotterranei














yZOcPF



Bertrand Raven

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Edited by IGNATZ DENNER - 30/3/2023, 15:03
 
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view post Posted on 28/3/2016, 09:59
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Raven era sulle tracce di una antica Corporazione di Muratori , che aveva preservato

la sapienza di MIthra









Edited by IGNATZ DENNER - 18/12/2016, 11:40
 
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view post Posted on 29/3/2016, 11:12
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E varie Logge Massoniche avevano utilizzato quei tunnel ...






Bertrand Raven

Edited by IGNATZ DENNER - 18/12/2016, 11:45
 
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view post Posted on 31/3/2016, 07:55
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I Ribelli avevavno lasciato la memoria del Dragone

come traccia per ritrovare i passaggi segreti









cimrm103_color



Edited by IGNATZ DENNER - 18/12/2016, 11:37
 
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view post Posted on 2/4/2016, 10:29
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Tutto era iniziato molti anni prima










1982 Città di Bologna







Una sera, durante una ronda d’armi, in stile Kubrik,
che frequentavo in quel periodo,
ci capitò di trovarci in Vicolo degli Ariosti.

E’ un posto molto particolare, una tradizione precisa vuole che la Città di
Bologna
sia stata fondata proprio lì,
poco distante infatti ci sono le vestigia delle antiche mura di selenite, le
prime edificate
per cingere il borgo e proprio nel vicolo doveva essere l’ingresso dell’
immenso tempio di Giove
che fu distrutto da un terremoto nel 11 a. c.
Le cronache narrano che la selenite del tetto era visibile a decine di
chilometri,
e ora le macerie formano quella improbabile collina che i bolognesi ben
conoscono
vicino al Museo Medievale.

Era probabile che la nostra indomita ronda finisse nel cinema
che allora era addossato al vicolo,
e così mentre adocchiavo annoiato le scritte sui muri dei soliti idioti,
do uno sguardo proprio in fondo al vicolo, nella parte più buia, e mi accorgo
che,
dipinto sul muro, era presente un Simbolo che non avevo mai visto.



L’ autore scenografo era stato proprio bravo. Per un gioco di luci ombre e
prospettiva
più che vedere, si era costretti a intuire la presenza del Simbolo:
una barra orizzontale, con due barre verticali poggiate sopra quasi ai
vertici,
e una barra verticale in mezzo, staccata dalla base.
Sempre per il gioco di luci, avvicinandosi il manufatto sembrava illuminarsi,
ma di sicuro si poteva coglierne un aspetto: era stato composto con una
Matrice,
gli angoli e le linee erano impeccabili, e la vernice appariva di una
compattezza
totalmente insolita.
Per l’occasione ero attrezzato con armi bianche di ogni tipo, ma mi accorsi di
provare
qualcosa molto simile al disagio.
Allontanandomi, mi resi conto che avevo già deciso di indagare.


Plutarco, Vita di Romolo, XI; trad. M. Serio
Romolo, seppellito suo fratello nella Remoria [la rupe scelta da Remo per il rito
augurale], assieme a quelli che li avevano allevati [Faustolo e Acca Larenzia], fondò la
città; a tale scopo aveva fatto venire dalla Tirrenia [il paese degli etruschi] degli esperti
che gli spiegassero la corretta procedura da eseguire. […] Romolo dunque per prima
cosa scavò una fossa circolare nella zona su cui ora sorge il Comizio, e in essa depose
le primizie di tutto ciò che era utile secondo consuetudine e necessario secondo natura.
Quindi ciascuno vi gettò dentro un po’ di terra del proprio paese natale, e mescolarono
assieme il tutto. Questa fossa è indicata con il nome di mundus, lo stesso con cui
designano il cielo. Poi finalmente venne tracciato il perimetro delle mura, considerando
la fossa come centro della futura città. Il fondatore fissò all’aratro un vomere di bronzo,
vi aggiogò un bue e una vacca, quindi li guidò lui stesso, tracciando un profondo solco
lungo il perimetro stabilito; quanti lo seguivano avevano poi il compito di rivoltare
all’interno le zolle sollevate dall’aratro, badando che neanche una rimanesse all’esterno
del solco. Così tracciarono il perimetro delle mura, chiamato con forma sincopata
pomerium, vale a dire «dietro, o dopo, le mura» [post murum]; là dove intendevano
collocare una porta, estraevano dalla terra il vomere e sollevavano l’aratro in modo da
lasciare un intervallo nel solco. Considerano pertanto sacro e inviolabile l’intero
perimetro delle mura, eccezion fatta per le porte; considerando sacre e inviolabili anche
le porte, infatti, non sarebbe stato possibile far entrare o uscire le cose necessarie, ma
impure, senza commettere sacrilegio.
(Plutarco, Vita di Romolo XI; trad. M. Serìo)



In quel periodo mi vedevo spesso con Mario Pincherle, ad Ancona.
Nella sua casa di Via Fornetto 107, a due passi dal celebre crocicchio delle
streghe,
( dove Michel de Nostredame salutò il frate Felice Peretti nel futuro Papa
SistoV )
il grande archeologo discuteva con me la sua Teoria degli Archetipi:
in un’organizzazione antropica, una città ad esempio,
i 22 Archetipi fondatori dell’universo, che i Cabalisti del medioevo
riformularono con il nome di Tarocchi,
si materializzano spontaneamente, a priori dalla intenzioni degli architetti,
e seguendo questa intuizione, ora giocavo a trovare le Carte dei Tarocchi
nella planimetria felsinea,
rintracciando Bet, ב


La Papessa, la Grande Madre, nella finestra sull’ipogeo
delle acque
vicino Porta Lame






, Nun, נ

La Temperanza, Proteo, il Fauno gigantesco nell’alcova
orfica
di Strada Maggiore,






Scin, ש


Il Matto, il moto rettilineo, l’ipnosi, nella
celebre finestra
che guarda il naviglio di Via Piella.







Mi addentravo nelle strade come un veggente turista
( già allora gli amici mi dicevano che sembravo Jack in Shining )
diventando postino, pubblicista, maniaco, e professore
riuscivo a introdurmi dove volevo,
Bologna è una città fantastica, piena di giardini segreti
e vestigia archeologiche.

Dando la caccia ai 22 Arcani Maggiori,
ritrovati nella città dentro le mura e nella Certosa Monumentale, il Cimitero
di Bologna,
in poco tempo mi resi conto che erano apparse altre Matrici.

Vicino Via Galliera, in Via Farini, vicino Piazza Santo Stefano.
4 in tutto.

Mefisto mi diceva che ce n’erano altre.
Iniziò una frenetica ricerca negli Archivi Comunali sulla storia di quei punti
particolari,
andando indietro circa 5 secoli con le cronache e ancora oltre con i
documenti.

Neanche la scoperta di un nuovo romanzo di Hoffmann mi avrebbe coinvolto
così,
non poteva essere una coincidenza, tutti e 3 i luoghi dove avevo scoperto
le altre Matrici erano legati a fatti e persone riconducibili a processi di
stregoneria, ( questa l' anticipo subito, la stregoneria non c' entra una sega .... )
e alle notizie su una presunta Società Segreta legata al culto di Mithra: la
prima data in cui compariva era il 1100,
quando fu fondata l’Università, e nei secoli si era estinta o mutata in
corporazione,

lo studioso Giulio Camillo Delminio la citava in un commento al Libro del
Comando
di Cornelius Agrippa senza identificarla,

una Vachetta de li Giustiziati del 1500 la associava al Collegio Judicum
Mutine
dello Statuta Civitatis del 1270, ma all’inizio del 1800 gli inquirenti la
conoscevano
con il nome de I Ribelli di Lucifero, forse in onore a Milton.


( Per Inquirenti intendo la Polizia Pontificia ; sto facendo una ricerca capillare su vari faldoni

de Atti riservati di Polizia . a Bologna, Archivio di stato , in particolare faldone 244 -1851/2 )




A distanza di anni mi ricordo ancora il loro Stemma,
una testa di morto con la bocca cucita su cui è poggiato un gallo.

Nessuna Araldica ne avrebbe ammesso l’esistenza.

Intanto stavo allargando le ricerche ad amici e studiosi, giornalisti e anche
investigatori,
nessuno ne sapeva niente.

Passavo le settimane tra biblioteche e librerie antiquarie di mezza Italia
a cercare le tracce che si inseguivano in libri spesso inaccessibili.

Tra l’altro una scuola di pensiero vuole che le sorti e i libri legati alla
magia,
perché abbiano potere debbano essere rubati.

Funziona. E’ un metodo sicuro per finire nei guai.

Stavo infatti seguendo una traccia: in un testo alchemico che sono riuscito a
sottrarre
da una collezione privata, si racconta di una leggenda bolognese,
su come un Ordine Segreto si riunisse in un palazzo dell’attuale Via
Galliera,
per poi percorrere un tunnel sotterraneo che portava direttamente
alla Certosa Monumentale.

In realtà ne avevo già sentito parlare, sembra che i partigiani lo
utilizzassero
durante l’ultima guerra per gli spostamenti e come deposito d’armi.
Chi ha visitato l’immensa galleria sotterranea del torrente Avesella,
che passa proprio sotto le 2 Torri, ha potuto accorgersi che sotto Bologna
esiste un’altra città, con centinaia di passaggi , piccoli ipogei e cortili
e migliaia di cunicoli che fungevano da servizi e da comunicazione.
Con tocchi di noir gotico,
ad un certo punto della galleria, tra le muffe delle pietre antiche,
e i ratti che attraversano i muri , compare una scalinata al cui vertice
è una normale porta d’appartamento con maniglia.







La guida ci descrisse un passaggio in comunicazione, 7 metri più sopra,
con un locale di Via dell’Inferno. ( Un caso. )

Sapendo benissimo che non mi sarei mai più divertito così tanto,
neanche in un film di Corman,
decisi di fare un’ incursione nella Certosa Monumentale.

Di notte, Corsia dello Stillicidio, riuscii a calarmi dentro quella cripta
sotterranea,



vicino all’attuale obitorio, che so essere la porta per l’ingresso del secondo
sotterraneo
della Certosa, quello abbandonato da secoli,
e con una soddisfazione molto simile al terrore vi trovai la 5° Matrice.

Le indicazioni del libro erano precise: la Setta percorreva il passaggio
per raggiungere la tomba di un Magister Doctissime morto nell’Alto Medioevo.

Le spoglie del corpo erano state traslate e nello Stemma c’erano
gli indizi per ritrovarne il loculo


Gasparini_arch_548_low[/SPOILER]




Nel frattempo a Bologna la Teoria del Simbolo era impazzita,
ne stavano apparendo a decine dentro la città antica,
tracciati e dipinti con i mezzi più occasionali sui muri,
sulle bacheche dei giornali, sulle porte, spesso in gruppi
eseguiti da mani differenti.
Notai che più ci si allontanava dal centro storico
E più si diradavano.

Le Madri, in tutto, erano 5.

Loro, sempre presenti in un’enigmatica indifferenza
dei passanti,
erano in silenzio.

Io, Faust ammalato tra vecchi libri,
indagavo sui Simboli che calavano in città come
Carte da Briscola.

Era il periodo del mitico Q. BO., una discoteca dove facevo il buttafuori, con
scarsa efficacia,
quello era il punto ideale per raccogliere tutte le voci e le tendenze.
Almeno 3 gruppi di bande Dark, Punk, Rock, e altri scoppiati del coro,
mi dicevano la loro, senza enfasi, interpretandolo un semplice sistema di
riconoscimento
dei luoghi dove incontrarsi, un Logo per marcare il territorio,
e tutti mi davano una versione differente su come era nato.
Mi ricordo che con 2 ragazzi mi feci un dovere di portarli ad una delle
Madri,
raccontando ( con cautela ) qualche antefatto.
Buio più assoluto, mai visto e mai fatto,
in compenso mi promisero una loro indagine interna.
Da allora, in tutti i gruppi Dark di quel periodo c’era la sicurezza
che io fossi un Negromante.
‘’ State alla larga da Jack, oltre che pazzo
gioca con i morti ‘’

Ad un certo punto pensai alla celebre Setta Satanica del Bambini,
di cui si parla va molto,
ma gli amici inquirenti lo escludevano.

Nel mezzo del cammino, un colpo di scena.
Fui contattato da un noto esponente politico di un partito:
‘’ Carissimo, Alfa mi ha parlato del suo interessamento per una storia che non
ha
niente di misterioso, vede, la Matrice di cui Lei tanto sta chiedendo
è solo il simbolo stilizzato del nostro partito. Eccola qua ! ‘’

Ero sbalordito e senza parole, l’idiota che mi stava parlando doveva essere
stato imbeccato da qualcuno, nel mostrarmi uno stampo, che tra l’altro,
anche se leggermente, era diverso dall’originale,
voleva saper tutto sulle mie ricerche.

E così, a distanza di anni, confidai a un telefono la notizia che sapevo
certo
l’interesse di 2 Logge Massoniche per la questione,
ciò mi procurò un primo risultato:
259/95 R.G.N.R. art. 407 c. p. Profanazione di sepolcro.
Un bel decreto di perquisizione domiciliare.

( E’ una cosa che non ho mai capito, forse visto il mio passato di studente
teatrale,
Madama chi stava cercando, Yorick ? )

Dopo quasi 15 anni di ricerche riuscii a trovare gli indizi presenti
nello Stemma dei Ribelli,
il loculo si trova vicino alla Chiesa,
nella parte più antica della Certosa.

Ma intanto la danza macabra stava continuando a suonare,
gruppi che mi comparivano attribuendosi l’origine certa,
gruppi in opposizione che modificavano il Simbolo:
ci ha pensato Saturno,
altri anni sono passati e squadre attrezzate di spietati imbianchini
hanno provveduto a ricoprire tutte le Madri con intonaci d’autore.


Chi erano i Ribelli ?

Li vedevo attraversare il tempo
come un Drago di pietra.

I secoli lo colpivano mutandolo
in un edificio in rovina.

La Setta aveva deciso di lasciare una traccia nelle tombe degli Adepti,
giravo la Certosa alla ricerca di tutte
le forme del Serpente,






che avrebbe fatto da guardiano ai nomi delle famiglie
seguaci dell’Ordine da venti o trenta generazioni.

Una Fenice rampante su campo armellino
le ali afferranti due martelli che si affrontano.

Ne ricordo la superba potenza,
una giovane Lince tra i ceppi anneriti dei tumuli,






E le Idre e i Grifoni sulle metope dei portici
sembravano disegnare un percorso,
sempre distante dalle Squadre e i Compassi Massonici,






che portava al Recinto dei Cappuccini
vicino la Loggia a Levante.

Poco distante, alla fine
era il giusto traghettatore delle anime,

Un Aion Mithraico dal corpo di Leone,
l’Aspide che lo avvinghiava aveva 12 bocche,
tutte guardanti la stessa direzione,






Come una muta processione
Lentamente il silenzio si posava
Su queste tracce sempre più lontane
E negli anni le mani esperte dei ladri
Le hanno cancellate per sempre.


A distanza di molto tempo
Sono ritornato nei luoghi dove so essere le Matrici,
e ho scrostato l’intonaco,
i Simboli sono ancora lì,
sembrano Diavoli in sonno











OGNI ATTO DI GIUSTIZIA


GENERA UN CRIMINE


LUCIFERO QUEL DIADEMA ROVENTE


E' IL RICORDO


DELLA TUA BELLEZZA


QUANDO ABITAVI LA LUNA


E IL TUO RESPIRO GENERAVA


LE MAREE


IL TUO CORPO SEPOLTO


DAGLI ASTRI


RISPLENDE NERO


E ABITA LA BOCCA DI DIO


COME UNA CORAZZA


VIENI


MADIEL


TUO FIGLIO VUOLE NASCERE





























Lettori , vi avviso ,

i fatti qui narrati potrebbero essere veri .





Postai questo racconto il

14 Febbraio 2005


nel topic Questioni di sfumature a ufologia.net , forum estinto e topic disintegrato ...

ma per fortuna salvato ,,,,posterò poi gli aggiornamenti in blu nel racconto con dozzine di note e link e almeno100-200 foto ,









Dalle memorie di Bertrand Raven

Edited by IGNATZ DENNER - 18/12/2016, 11:34
 
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view post Posted on 2/4/2016, 10:47
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LA TRADUZIONE PERDUTA DEL

NECRONOMICON





di Giuseppe Lippi












Nell'aprile 1952 chiudeva i battenti, per un misto di difficoltà economiche, complicazioni giuridiche e cause più strettamente legate alla crisi del gruppo di cui era portavoce, la rivista parigina Cahiers Noirs, che era stata fondata vent'anni prima da Claude Lussìnat. L'ultimo numero si distingueva per avere in copertina dove di solito campeggiava la sola testata, in viola su fondo nero la dicitura:

Sur le Maitre Giulio Camillo Delminio, par Rattimiro Bulgheroni.



Si trattava del breve saggio (otto pagine) in cui un oscuro corrispondente italiano della rivista di magia presentava un ritratto in chiave eterodossa dell'umanista e letterato rinascimentale nato a Portogruaro verso il 1485. La tesi di Bulgheroni era che l'attività magica e cabalistica di Delminio ne avesse influenzato l'opera letteraria, anche se in modo solo parzialmente evidente, e che comunque fosse stata quella il suo principale accomplissement, mentre la produzione poetica o teorica sarebbe del tutto marginale rispetto a essa.

L'idea che Delminio fosse un grande mago non era certo nuova; ma Bulgheroni, dopo aver fatto riferimento alla sua nota attività alchemica, e dopo avergli senz'altro attribuito « la création in vitto du premier homunculus », citava un breve passaggio della biografiache Marco Scotto scrisse alla fine del secolo XVI in cui si legge che il cabalista non trascurò le fonti di studio islamiche, e che dal mondo arabo riportò « I preziosi insegnamenti di un maestro ingegnosissimo, Abdul Azhared di Sanaa » (1).

(1) È la trascrizione corretta del nome arabo: Azhared, e non Alhazred, come poeticamente si è invece permesso Lovecraft.



Bulgheroni afferma che l'alchimista veneto conobbe senz'altro il Necronomicon, e che anzi ne tentò una versione in volgare. A quest'affermazione seguono alcune brevi considerazioni cronologiche che sembrano suffragare quest'ipotesi: verso il 1550 apparve in Italia, e fu stampata a Roma, la versione greca di Teodoro Fileta, che però già da tempo circolava in edizioni limitate e mi-noscritte nei circoli esoterici della penisola.

È convinzione di Bulgheroni che l'editore e curatore dell'edizione romana, Francesco Guiduccio, fosse strettamente legato a Delminio, e che in un primo momento fosse stato da lui spronato a leggere e studiare l'opera. Quando il libro apparve (per l'esattezza nel 1548, come Mare Michaud è riuscito a stabilire) l'alchimista veneto era scomparso da soli quattro anni.


Nella biografia di Marco Scotto, Guiduccio è effettivamente definito « il corrispondente più regolare » di Delminio, che verso la fine della sua esistenza risiedeva in Milano al servizio del Mar-chese del Vasto: secondo Bulgheroni lo stampatore romano ebbe fra le mani la traduzione italiana che Delminio aveva fatto del Necronomicon, ma se poi pubblicò il testo greco fu « per preciso legato del suo Maestro ».

Quando il breve saggio dei Cahìers Noirs si chiude molti interrogativi restano aperti: chi fu effettivamente Delminio? Come venne a conoscenza del Necronomicon e in che modo lo tradusse? Per quale ragione chiese a Guiduccio di non pubblicare la sua traduzione? E infine: è essa reperibile, oggi, o è andata perduta come buona parte degli scritti esoterici delminiani?

Sebbene la fonte ufficiale più autorevole a proposito dell'alchimista di Portogruaro rimanga la biografia dello Scotto, due altri volumi servono a un miglior inquadramento del suo tempo e della sua opera: I neoplatonici del Rinascimento di Arturo Boffa (Laterza, 1929) e il monumentale Magie Lore in Western Highbrow Culture edito dall'Oxford University Press nel 1965.

Lo Scotto ci fornisce l'anno di nascita di Delminio, che forse è il 1485, ma che bisogna prendere con beneficio d'inventario per-ché ciò che interessava l'antico biografo era porre in rilievo certe coincidenze spettacolari e perlomeno strane atte a suffragare la « leggenda » sorta intorno al personaggio già in quegli anni. Ora, il 1485 fu un anno specialissimo per Portogruaro (2), come Marco Scotto non manca di far osservare.

(2) Vedi: G. POLIAZIANI, Rist. veti,, voi. IX, 1666.

In febbraio nacquero due gemelli siamesi che vengono descritti come dèmoni: occhi rossi, pelle bianchissima, capelli fulvi sul cranio, unghie nere, ma soprattutto piedi biforcuti (3).

(3) Molti neonati venivano accusati di avere il pie' biforcuto nel Friuli
medioevale e rinascimentale; in realtà i rapporti medici più illuminati par
lano di estrema separazione dell'alluce dalle altre dita o al massimo di cur
vatura dell'alluce, dovuta spesso a una deformazione ossea causata dall'ec
cesso di calcare presente nell'acqua bevuta dalle gestanti.


In marzo un meteorite di notevoli proporzioni cadde ad alcuni chilometri dal centro abitato, scavando un cratere profondo sei metri da cui si levò per tre notti di seguito « uno detestabilissimo lezzo, e si sprigionò un colore che nessuno sapeva definire ». In maggio scoppiò quella che si credette avventatamente un'epidemia di vaiolo , ma la storia medica della regione ha dimostrato che si trattò solamente di una forma non grave di scrofolosi e i più solerti abitanti della città si recarono nel cimitero giurando di aver udito « i morti mastichare », scoperchiarono diciassette tombe e, avendo trovato svariati cadaveri in stato d'inspiegabile conservazione, ne trafissero il cuore con altrettanti paletti, secondo la credenza che il morto masticante, o vampiro, è portatore di vaiolo e peste (4).

(4) Per questo vedi pure: A. CALMET, Dissertazioni sopra le apparizioni
de' spiriti, e sopra i vampiri o i redivivi d'Ungheria, di Moravia ecc, in
Venezia, 1756; nonché il raro De masticatione mortuorum in tumulis di
Michel Rauff.



Ma in settembre accadde l'avvenimento più inspiegabile di tutti: il sottosuolo della regione fu scosso per due settimane da violenti boati sotterranei, anche se non restano cronache di sismi o altre calamità naturali, e Scotto pretende che alcuni abitanti della città per scongiurare quei rumori si recassero di notte oltre le porte cantando inni non cristiani, per la qual cosa, come riferisce, « tre dottori e dodici signori mercanti furono condannati alla gogna ». Le entità che quegli sventurati cercavano di propiziarsi erano, sempre stando al biografo di Delminio, Belial e logge Sotote.


Il 1485 è poi naturalmente anche l'anno di uno dei più celebri processi per stregoneria nel Friuli, anche se Scotto stranamente non lo riferisce (5).

(5) Per questo vedi: MARGARET MURRAY The God of thè Witches, Oxford
University Press (tr. it.: Il dio delle streghe, Ubaldini, Roma 1972).


Fin da giovanissimo Delminio fu versato negli studi umanistici, dimostrando una profonda conoscenza delle lingue classiche e orientali. Scotto lo dipinge, ma è di nuovo per star dietro alla leggenda, come un ragazzo che a diciannove anni superava di statura qualunque gentiluomo e cavaliere nel Friuli, aveva lunghi capelli neri che gli scendevano sulle spalle, un volto forte e ossuto, fieri occhi ardenti e un naso aquilino lunghissimo. Se con la luce che gli brillava nello sguardo dimostrava un'assoluta padronanza della volontà e dell'intelletto, con le mani lunghe, molto magre riusciva benissimo in qualunque attività pratica: era un formidabile schermidore, un ottimo tiratore con l'arco, un bravissimo tessitore (poiché fin da fanciullo aveva considerato la filatura « un'arte che della vita dispiega lo svolgimento »), e, pare, un amante fuor dell'ordinario. Scotto lo ritrae come un Casanova cinquecentesco, anche se un cronista francese, Jacques Dubrillard,lo tratta invece come un eremita misogino allorché deve dipingerne il soggiorno alla corte di Francesco I (6).

(6) Vedi: Henry Klem, che cita Jacques Dubrillard in La France et
la Renaissancs obscure, Editions de Philosophie, Parigi 1964.

E' probabile tuttavia che nei francesi ci fosse un certo inte-resse a screditare il « mago » proprio per Ì suoi troppi successi in campo sentimentale. È rimasta relativamente famosa la lettera di un'alta dignitaria della corte di Francesco I, Marie Laven, che così si lamenta:

« II (Delminio) m'avait promis une absolule ftdelité et dédition, mais j'ai découvert qu'il sorts de sa chambre quand la lune est haute pour réjoindre une cocotte de nude beante, celle qui appellent 'la sorcière', et qu'ils foni l'atnour d'une facon bestiale et très peu chrétienne. Mon coeur est seni avec sa jealousie » (7).

(7 Egli (Delminio) mi aveva fatto promessa di assoluta fedeltà e dedizione, ma ho scoperto che di notte, quando la luna è alta, esce dì sua camera per raggiungere una sgualdrina di nessuna beltà, quella che chiamano 'la strega', e che fanno l'amore in modo bestiale e assai poco cristiano. Il mìo cuore è solo con la sua gelosia a (Marie Laven, Documents
de France, a. IX voi. IV).




Quasi a ratificare la diffusa opinione sulla crudeltà del casanova viene la credenza popolare secondo cui Delminio avrebbe stretto in gioventù un patto col Diavolo per ottenere tutte le donne che desiderava. Questo particolare è negato da Scotto con un certo compiaciuto disprezzo, e si capisce perché, ma nei Neoplatonici del Rinascimento Boffa si esprime così:

«È impossibile stabilire fino a che punto l'esaltazione mistica e spirituale nei rappresentanti 'oscuri' di questo filone confinasse con la vera e propria demonologia... tuttavia... si può fare per tutti il caso di G. C. Delminio, la cui reputazione si fece pessima con gli anni a Venezia e a Portogruaro, ma che fin da giovane era stato ritenuto un adepto dì forze oscure, specialmente al fine dell'incantamento amoroso. Del resto l'autore incriminato non fece nulla per dissuadere i suoi contemporanei da questa convinzione, ma semmai l'alimentò » (8).

(8) A. BOTTA, op. cit., pag. 317.

È probabile che con l'ultima affermazione Boffa intenda riferirsi soprattutto a quelle considerazioni, contenute nelle annotazioni sopra le rime del Petrarca, in cui Delminio si esprime con .ambiguità a proposito del sentimento di trepidazione amorosa, lasciando trasparire un'aura di superiorità invincibile nei confronti della donna, che non sarebbe oggetto degno di troppe cure. Vale la pena soffermarsi un momento su questo aspetto della perso¬nalità delminiana, e meravigliarsi che da un lato potesse espri¬mersi con tanto cinismo e dall'altro concepire versi come questi:

Donna, altro messaggero non ho che inviarvi io possa per cui osi il mio cuore presentarvi, Fuorché la mia canzone, se vorrete cantarla.


In realtà Delminio sentì profondamente il trasporto verso il femminile anche inteso in senso simbolico, e non disprezzo mai le sue amanti. È vero però che tenne un contegno di sicurezza ostentata nei loro confronti, come se fosse certo di non poterle perdere, e che esse dipendessero in tutto da lui.

Sull'argomento della pena d'amore si espresse eloquentemente: è evitabile se l'uomo è forte, ma se vogliamo deliziarci anche di quella « dulcia tristia », facciamolo senz'altro: a patto di restare sempre padroni della situazione. Fu questa fiducia incrollabile, questa certezza nella possibilità di dominare. le passioni a indurre il sospetto nei contemporanei. In realtà Delminio non ostentava arroganza, voleva piuttosto parafrasare un'evoluzione spirituale.

Ma la fantasia popolare si accese quando una donna di Venezia, Letizia Costantinide, che da lungo intratteneva relazioni col Maestro, fu vista scomparire dalla circolazione senza che il suo amante volesse rivelare nulla in proposito.

Una sera, racconta Marco Scotto con l'aria di riferire un'assurda calunnia, poco prima dell'imbrunire si udì un alterco venire dal palazzo di Delminio, e poi un sottile lamento che durò fin quasi al levarsi della luna. Infine, poco dopo che il sole era sceso dietro l'orizzonte, da una delle finestre della torre si affacciò una donna, che spinse tutto il corpo in fuori, in modo che i passanti credettero volesse suicidarsi.
Ma quella donna possedeva un paio di grandi ali, anche se non aveva più le braccia, e con esse spiccò il volo scomparendo oltre l'orizzonte tra orribili versi d'uccello. Gli astanti giurarono che si trattasse di Letizia, anche se con la luce incerta sarebbe stato difficile giudicarlo, e gridarono che « il Dottore » (cioè Delminio) l'aveva fatta impazzire e le aveva amputato gli arti. Altri, più esplicitamente, dissero che l'aveva convinta a vendersi al Demonio e che questi l'aveva trasformata in strega.

E quasi certamente un'esagerazione — o, se si vuole, una triste metafora — del suicidio cui andò incontro la Costantinide. Ma, siccome non esistono più prove, la leggenda di stregoneria è tutto quello che ci rimane di un dramma mai chiarito.

Fatto sta che, nonostante la sua influenza e le sue ottime conoscenze, dopo questo episodio Delminio dovette abbandonare la casa e cominciare una serie di peregrinazioni; il palazzo non venne venduto, ma lasciato ad un giovane cugino originario di Pirano, il quale lo esplorò sistematicamente e che ci ha lasciato una preziosa catalogazione del materiale trovato (9).

(9) Oggi custodita privatamente a Venezia, coll. Dei Brioschi.



Tra queste cose si ricordano; molti strumenti geografici; mappe e curiosi disegni di paesi che secondo il giovane beneficiario « non esistono su la Terra»; manoscritti inediti dello stesso Delminio (tra cui l'abbozzo di un'opera progettata, mai compiuta, che doveva intitolarsi Teatro, intesa in senso retorico a rappresentare la fonte di ogni dottrina, e fornire quasi meccanicamente la scienza ad ogni uomo senza alcuna fatica, secondo un'illusione che sarebbe stata pure di Giordano Bruno); una vastissima biblioteca in latino, greco e arabico e una considerevole quantità di corrispondenza, buona parte della quale scritta nel linguaggio crittografico che Delminio adoperava nelle epistole di Dottrina, termine con cui talvolta designa l'Alchimia.

Fra le lettere non cifrate, e che dunque luì era in grado di leggere, il giovane di Pirano (che si chiamava Clemente Amine) ne trovò una di una giovane donna piemontese, che si firmava Margherita, e che scriveva in sostanza parole d'amore; fra queste però (poiché sì trattava di un'iniziata) compare a un tratto un periodo che attrasse l'attenzione del curioso Clemente:

« Onde ti priego di non più studiare le carte dell'Arabo, poiché sono di conoscenza malevola, e il greco Fileta che le tradusse compì altri errori. La follia prende a troppo almanaccarvi, e a nulla conseguenza portano le Impetrazioni, che non sia di natura bassissima. Contra-rio a ogni cammino è il Necronomico » (10).

(10) Coll. Dei Brioschi.

Sull'identità di Margherita sono state fatte varie ipotesi; Marco Scotto afferma che abitava a Intra, sul Lago Maggiore, dov'era nata, e che da sola governava una casa grande e quieta a specchio dell'acqua; la dipinge come un'iniziata a conoscenze proibitive, data l'epoca, per una donna, ed è forse per questo che si sente in dovere di chiamarla « striga » (maga) in due punti, ma non con connotazioni spregiative.

Era una donna bellissima che Delminio aveva conosciuto in un primo viaggio a Milano e anche l'unica che gli sarebbe rimasta vicina — con la corrispondenza, l'amicizia — per tutta l'esistenza. In un documento perduto, ma che Scotto conosceva, Delminio la descrive bassina, della statura che fa deliziose le giovani donne; i capelli erano lunghissimi e leggermente crespi, di modo che si gonfiavano facilmente: il loro colore era chiaro, ma non biondo: «come paglie, fieni, felci», dice il suo amante in un brano riportato integralmente.

Aveva gambe piccole sotto le cosce ben tornite, e occhi molto lunghi, e una bocca curva e rossa. Delminio si chiese quante altre donne adoperino il rosso che lei sa darsi alle labbra, di una tinta che non ha mai veduto.

Fu lei a riceverlo dopo la partenza dal Veneto, e ad ospitarlo a Intra per un periodo probabilmente lungo. Marco Scotto scrive forse uno dei capitoli più affascinanti — ma più romanzeschi — dell'intera biografia a proposito di questo periodo: i due amici scendevano alla sera verso le oscure acque del lago e osservavano le costellazioni di cui erano entrambi esperti, e dal disegno che li colpiva di più traevano spunto per un sonetto, quasi sempre a sfondo magico. Delminio amava la pace, ma, fresco della lettura dei frammenti greci del Necronomicon, faceva strane considerazioni sul giorno in cui « le stelle tornerebbero nella Vecchia Posizione », e paventava ciò che sarebbe accaduto agli uomini.

Margherita lo rimproverava per quelle letture — sebbene a sua volta possedesse una parte della traduzione di Teodoro Fileta — e lo consolava dicendogli che quel giorno lontano essi non lo avrebbero mai visto. Allora una malinconia desueta vinceva il mago, che si struggeva di non saperla immortale (a questo argomento dedicò qualche verso) e dichiarava che il vero fine della sua Opera non poteva essere altro che assicurare una vita eterna a Margherita. Tra parentesi, in quel periodo egli compì importanti esperimenti sulla creazione dell'omuncolo o uomo artificiale, e si applicò con dedizione allo studio dell'immortalità. Un poeta milanese del XIX secolo, Augusto Terzani, conobbe e si innamorò di una Margherita di Intra e sostenne in qualche delirante sonetto che dunque Delminio era riuscito nello scopo di renderla eterna (11): e del resto se ne ricordò poi Carlo Dossi.

(11) AUGUSTO TERZANI, A Margherita in Le Rime dell'Immortalità, Milano 1899.

Come e perché l'umanista/mago decidesse di abbandonare quell'idillio e passare in Francia non è del tutto chiaro, ma forse fu all'epoca di una malattia di Margherita, che soffriva di visioni e riteneva il suo lago intensamente popolato di spettri; certo i due promisero di rivedersi entro breve tempo, e continuarono a scriversi per tutto il periodo che il Maestro trascorse alla corte di Francesco I.

Attraverso questa corrispondenza — quasi tutta dispersa in collezioni private, ma ben riassunta nel Magie Lore in Western Hìghbrow Culture — appaiono evidenti le trasformazio-ni che l'ambiente francese operò su Delminio: si fece più sensibile all'influenza cabalistica e si avvicinò con interesse ben più che accademico alle conoscenze antichissime cui rimandava la traduzione di Teodoro Fileta.

Secondo l'amabile « striga » di Intra, a Parigi il suo amico potè vedere una copia manoscritta della versione a-raba del libro, Al Azif. È difficile decidere se ciò sia stato veramente possibile, o se Delminio non si vantò — avendo già co minciato a lavorare sul testo greco — per imprimere un marchio di maggior attendibilità alla sua traduzione. Come si sa, infatti, solo tre copie del testo arabo sarebbero sopravvissute al suo autore, Abdul Azhared. Non è impossibile però che proprio uno dei più strani personaggi del secolo, il cabalista Olivier Heyquem, fosse riuscito a far transitare per la sua casa il testo segreto ed a mostrarlo all'italiano, che era con lui ancora in ottimi rapporti.

Debbo ancora una volta alla cortesia di Enrico Fulchignoni l'invio dell'unico documento rimasto della corrispondenza « scientifica » fra G.C. Delminio e Heyquem, che risale ai primi mesi della permanenza parigina e già dimostra l'interesse ritualistico, oltre che letterario, portato dal nostro verso il complesso di credenze riassunte nel Necronomicon:



« Parigi, 1 maggio.
Fratello, a lungo lavorai a riportare Indietro ciò che
credono Perduto, e la notte addietro pronunciai le pa
role che richiamano logge Sotote, e per la Prima Vol
ta vidi la Faccia di cui Parla Ibn Schacabac nel
E mi disse che il Salmo III del Liber Damnatus conteneva la Chiave: col Sole in Quinta Casa, Saturno in Terza, traccia il Pentagramma del Fuoco, e recita tre volte il Nono Verso. Questo ripeti ogni Calendimaggio e ogni Vigilia d'Ognissanti, e la Cosa crescerà nell'Esterne Sfere. E dal Seme degli Antichi Uno nascerà, che tornerà indietro, pur non sapendo Ciò che Vuole... » (12).


(12) La traduzione in italiano moderno è nostra.


Evidentemente Delminio descriveva in dettaglio all'amica Margherita queste esperienze, perché lei lo ammonì ripetutamente di abbandonare la fallacia del Liber Damnatus (il Necronomicon evidentemente), inconciliabile con ogni altro testo di elevazione;ma egli le rispose che « dove c'è l'abisso, l'alto e il basso non contano più, e solo la conoscenza importa » (13).

13) Citato in Magie lare, cit., pag. 364. Il testo inglese, desunto da fonti originali, suona: « Where is thè abyss, Vpward and Downward are meanin-gless: Knowledge is remarkable indeed ». E un poco più avanti il mago confessa: « The Abyss is where Yogge Sothothe dwells, and he's a blind daemon whose force we can sense on Earth only when profoundly asleep. But you Margaret, do not worry: Beings from Outer Spheres are not in-terested in what we consider our Soul ». È curioso che una frase quasi del tutto identica sia stata scritta nel 1599 da John Dee, nella corrispondenza col dottor Edmund Felton.

La credenza che sia possibile, da parte del mago, riportare in essere le entità primeve oggi dormienti, o addirittura generarle (si veda la suggestiva allusione ai « semi ») ispirerà non solo Delmi-nio, ma più tardi John Dee (1527-1608), l'altro grande traduttore moderno del Necronomicon. L.M. Lombardi Satriani, da esperto di storia delle religioni, osserva come l'idea che si possa richiamare, o anche alimentare la divinità non è affatto nuova, e come l'idea dei « semi » di Delminio trovi una curiosa corrispondenza in certe credenze oceaniche e dell'Isola di Pasqua; il Necronomicon viene da cultura e ambiente arabico: colà, l'idea di « seme » che germoglia nelle « Esterne Sfere » parrebbe indicare una traccia di rapporto familiare con la divinità.

La traduzione di Delminio fu quasi certamente finita prima del ritorno in Italia, perché il soggiorno francese si protrasse più del previsto; egli la sottopose ad una revisione di Heyquem, ma secondo Marco Scotto tra i due scoppiò una grave divergenza, in parte alimentata da una donna, che si sarebbe conclusa in un duello se la sera precedente lo scontro il cabalista francese non avesse trovato la morte fra le braccia della cortigiana, Haydée Mismas. Delminio tornò in Italia non molto tempo dopo, ancora profondamente innamorato di Haydée, che era stata la causa di non poche sue traversie; due mesi dopo la partenza dell'alchimista ella trovò comunque la morte a causa di un incubo che la perseguitava da lunghissimo tempo.

La prima tappa del nuovo soggiorno italiano di Delminio fu Intra, dove Scotto racconta che la gente lo costrinse ad allontanarsi allorché cominciò a mettere in pratica gli insegnamenti dei suoi grimori; se si trattasse anche del Necronomicon (che l'alchimista aveva intitolato Libro volgare de' Morti E delle Cose Credute Perdute) non è sicuro, ma stupirebbe il contrario.

La genteudiva, a sentir Scotto, « tremori notturni, romori sotterranei, vedea colori senza nome nel cielo e sul Lago »; Margherita cadde vittima d'un attacco di febbri, e dopo averle prestato alcune cure « meravigliose » l'umanista, che da tempo si fregiava del titolo di Dottore (in medicina, benché fosse un semplice guaritore spontaneo) la lasciò per andare a Milano. Qui si sistemò al servizio del Marchese del Vasto, che apprezzava l'astrologia, la cabala e le doti taumaturgiche, ma aborriva la magia e a stento tollerava la collezione di grimori del suo protetto (14).

( 14 ) La quale, a quell'epoca, ammontava a oltre sedicimila fra mano
scritti, in folio e edizioni a stampa correnti


Sei mesi più tardi Clemente Amino moriva nella casa di Portogruaro, che tornava così libera per il suo padrone. I particolari del decesso sono raccapriccianti, ma bisogna cercare negli annali di storia veneta per trovarne traccia, poiché Marco Scotto ne tace (15):

(15) Bull. Hist. Ven. CXI, 1568.

perseguitato dall'ossessione di « una cosa alata, femminile », che durante la notte avrebbe avvolto la casa nelle sue ali nere isolandola dal resto dell'universo, il giovane piranense dapprima accusò attacchi di violenta claustrofobia, e infine cominciò a provare difficoltà di respirazione all'approssimarsi delle tenebre. Una notte infine rimase stroncato da un vero e proprio accesso d'asfissia.

Nel Concilio di Medicina di Portogruaro (1550) il caso veniva ricordato ancora come esemplare, e descritto con dovizia di particolari nonostante gli anni trascorsi: l'oscurità era, per l'ossesso, fonte di sofferenze fisiche e spirituali; la presenza di un cappellano, che era bastata a fugare gli attacchi di claustrofobia, non bastò più a trattenere quelli d'asma, o « brevità di respiro »; Clemente parlava di un'arpia immensa, non generata da questa Terra o da uno dei mondi infernali, ma da Sfere Esterne governate da « Quelli di Prima », che opprimeva la sua dimora e il suo petto dal crepuscolo all'alba del mattino successivo.

Se, nonostante la difficoltà di respirazione, lui riusciva ad addormentarsi, il mostro gli divorava lentamente una parte dell'intestino, facendolo risvegliare fra atroci dolori. La nemesi ebbe fine, con la morte del paranoico, quattro mesi dopo essere iniziata. Il rifiuto da parte di Delminio di recarsi a visitare il parente (adducendo scuse) fu interpretato dai più come la prova che l'occultista non era estraneo agli incubi di suo cugino, e questa è una prova in più della fama ambivalente del personaggio, che qualcuno considera degnadella sua natura ambivalente: umanista e occultista, dottore e stregone, alchimista e invasato, capace d'amore e tormentatore. Ma purtroppo dietro tanta anedottica è ormai impossibile ricostruire un'autentica personalità, al di là dei tratti sommari che abbiamo indicato.

Dopo la morte di Amino la casa di Portogruaro non fu occupata, come ci si sarebbe attesi, dal Dottore o dalla sua leggiadra compagna Margherita: evidentemente la sistemazione milanese era così felice che Camillo Delminio decise di rimanere nella capitale lombarda, chiamandovi anzi l'amica. Lei non accettò di venirvi stabilmente, ma il popolino mormorava che avesse mezzi tutti suoi per spostarsi immediatamente dalla non lontanissima Intra. Nella villa di Portogruaro si udirono, con il passare dei mesi, rumori sempre più strani e ripetitivi: come se effettivamente qualcuno abitasse la dimora dell'occultista.

Rattimiro Bulgheroni specula, nei Cahiers Noirs, che forse Delminio

« Aveva cominciato a nutrire ciò che aveva richiamato dall'Abisso, o Esterne Sfere; aveva coronato di successo il piano di una vita (della parte più bizzarra e misconosciuta, almeno, della sua vita) e aspettava che la Cosa alchemica, l'essere preternaturale avesse l'età e la forza di uscire pel mondo » (16).


(16) R. BULGHERONI: Sur le Maìtre Giulio Camillo Delminio, in Cahiers Noirs, mars-avril 1952, Paris, Lecouture; oggi: Bibliothéque Nationale. La traduzione è nostra.

Bulgheroni è una figura particolare, e su ciò ci soffermeremo in chiusura; nondimeno ha ragione nel sottolineare che la paura dell'alchimista e dei suoi dèi neri alimentò in quegli anni uno dei più suggestivi e confusi intrecci di dicerie dell'intera regione.

Quanto all'uomo che desiderava l'immortalità, che aveva creato Vhomunculus e condotto una delle vite più avventurose e ambigue dei suoi difficili tempi, morì a Milano quasi in solitudine nel 1544, dopo una senescenza precoce, una serie di malattie inspiegabili e sconosciute (che lo privarono, tra l'altro, della sua virilità) e tormentato dai rimorsi. Di questo fa fede, oltre alla conclusione dell'esaltata biografia di Scotto, una lettera-testamento del 1543 indirizzata a due sole persone: Margherita e l'editore romano Francesco Guiduccio, in cui Delminio proibisce espressamente di rendere nota la sua traduzione del Libro volgare de' Morti, e prega Dio che « lo 'nfame Necronomico stesso » venga « purgato, escluso alla conoscenza, allontanato dai libraii » e perfino dagli istituti di sapere (lui che, come ha dimostrato Bulgheroni, nel 1540 aveva proposto agli Accademici dell'Università di Bologna di custodire una copia della sua versione manoscritta) (17).

(17)È probabile che Scotto avesse tutto l'interesse a mostrare un pen
timento finale e una riconciliazione con l'ortodossia religiosa del suo idolo,
ma il documento appena citato, e altri custoditi presso la Biblioteca
di Palazzo Sormani in Milano, attestano effettivamente uno stato d'animo
angoscioso, e qualche volta dichiaratamente rammaricato. Si tratta comun
que di testi piuttosto confusi, talvolta crittografati, la cui chiave non è
sempre facile sciogliere; come non è semplice separare le parti « dottrina
rie » da quelle autobiografiche concepite dall'alchimista morente.



Tormentato da visioni apocalittiche, il Dottore chiuse gli occhi urlando — secondo gli astanti — che temeva di cadere, e « di continuare a cadere per l'eterno » (18).

(18) Non citato dallo Scotto, ma riferito, in base a testimonianze giuridiche dell'epoca, in / neoplatonici del Rinascimento, cit.

Questi i fatti, su cui ben pochi si erano finora soffermati; poiché però attualmente non esistono copie della traduzione delminia-na resta da chiedersi su che prove si basi la convinzione che essa sia realmente avvenuta. La fonte principale è l'opera di Rattimiro Bulgheroni, {1900-1964), tipico mezzemaniche romano: un impiegato del Ministero del Tesoro che, in quasi trentacinque anni di attività, scrisse oltre duecento fra saggi, monografie e raccolte di testimonianze su quello che lui chiamava « il mondo dell'occulto ».

Lavorava prevalentemente di sera, dopo otto o anche nove ore d'ufficio, e naturalmente alla domenica e negli altri giorni festivi; divenuto un discreto bibliografo studiò prima il francese, poi, con le facilitazioni dovute alla guerra, il tedesco; nel 1933 aveva rinunciato a sposarsi per devolvere tutti i suoi averi, e naturalmente tutto il tempo libero, allo studio e alla scrittura.

Venne regolarmente pubblicato su Luce e Ombra, e l'editore milanese Bocca gli accettò il manoscritto di una ricerca in tre tomi sui Misteri delle necropoli etrusche; redazionalmente l'opera fu però abbondantemente sforbiciata, fino ad apparire in un unico esile tomo nel gennaio 1949 (sei anni dopo la consegna del manoscritto, a causa delle difficoltà belliche).

Contrariato, Bugheroni sospese allora l'ingente lavoro cui si stava sobbarcando per realizzare i previsti seguiti di quel lavoro: Misteri delle necropoli neogreche e Misteri delle necropoli romane.


Compì le prime ricerche su Delminio nel1935, ma continuò l'impresa sino a oltre il 1950, quando fu praticamente certo dì avere ragione: l'esoterista rinascimentale aveva tradotto il Necronomicon. Egli basava questa convinzione su due fatti: le allusioni contenute nella biografia di Marco Scotto e i carteggi e la corrispondenza privata del Maestro. A onore di Bulgheroni va detto che, prima delle sue ricerche, a ben pochi sarebbe venuto in mente di correlare questa non chiara materia.

La biografìa di Scotto non parla mai del Necronomicon, ma solo del « maestro ingegnosissimo », l'arabo Abdul Azhared, e del fatto che Delminio ne conobbe e ne riportò gli insegnamenti. Quanto alla traduzione, è molto ambiguo: da un lato sembra far intendere chia-ramente che il Libro volgare de' Morti deriva da Al Azif — o dalla sua versione greca —, dall'altro, soprattutto per timore dei rigori ecclesiastici, contamina i resoconti in proposito con incredibili metafore, passaggi oscuri e deviazioni dall'argomento principale (19).

(19) Nonostante queste precauzioni il libro di Marco Scotto, concepito
intorno al 1570, rimase a lungo allo stadio di manoscritto, e quando fu edito nel 1579 si ebbe il biasimo de] Papa Gregorio XIII che lo riteneva propalatore di » fatti estranei al buon comportamento dei cristiani »; suscitò inoltre una vivace disputa fra gli intellettuali ortodossi e i più spregiudicati a proposito delle reali inclinazioni e capacità di Delminio.


Bulgheroni non si perse d'animo: rintracciò innanzitutto il carteggio tra l'occultista e l'editore romano Guiduccio (custodito quasi per intero in biblioteche vaticane) e in cambio di uno scru-poloso lavoro di catalogazione ottenne libero accesso alla raccolta.

In quattro delle lettere da lui riportate alla luce {la C, la P, la V e la CV secondo la sua numerazione) è esplìcitamente menzionato il lavoro di traduzione che il Maestro stava compiendo in Francia, la revisione apportatavi da Heyquem prima della rottura, le difficoltà incontrate sul testo greco (« non chiaro », secondo il traduttore) e l'offerta di Delminio all'Università di Bologna di custodire una copia del manoscritto.

In una quinta lettera, 2P, vi è poi il divieto fatto a Guiduccio di pubblicare la traduzione italiana (è la stessa da cui abbiamo stralciato poco sopra)(20)

(20) Sul motivo della proibizione, a parte l'eventuale pentimento circa il contenuto del grimorio, si sono fatte varie ipotesi. Bulgheroni sostiene che se Delminio aveva effettivamente visto a Parigi una copia dell'originale arabo era stato in grado di eliminare dalla sua traduzione quegli "errori" commessi da Fileta nella versione greca, a cui accenna anche la sua corrispondente di Intra, e di ottenere quindi un prodotto più fedele ma anche più « pericoloso ».

A questa teoria si è obiettato (ad es. da parte del Fojer) che all'epoca di Delminio era comunque in circolazione da poco meno di un secolo un'altra traduzione, latina, a firma di Olas Wormius; Bulgheroni sostenne sempre che:

1) Delminio non entrò mai in possesso di quella versione;

2) che, secondo la testimonianza di un lettore più che degno di fede, Monsignore Augusto Deprà, che fu tra i compilatori dell'Index librorum prohibitorum del 1557, la traduzione di Wormius era imperfetta, poco precisa e assolutamente manchevole rispetto a quella greca, allora più celebre in Italia.

La tesi del o pentimento » delminiano resta da dimostrare; alcuni studiosi moderni che hanno seguito il lavoro di Bulgheroni — Mistral, De Veistre — sostengono che alla base del divieto ci furono anche ragioni pratiche. Delminio aveva raggiunto un parziale accordo con uno stampatore francese, Xavier Basset, per far uscire la sua traduzione in Francia, in un'edizione anonima. De Veistre ha riportato alla luce una parte del carteggio fra i due nel 1968, e sostiene che Basset fece un'unica edizione — in italiano — intorno al 1547-48. Non esclude quindi la possibilità di ritrovare, oltre ai manoscritti del Dottore, anche esemplari a stampa della sua fatica. Per tutto questo si veda: JEAN-PIERRE DE VEISTRE, La conceptìon cosmìque de la magie, Hachette, Parigi 1970.

Bulgheroni dimostrò anche inconfutabilmente che tutte le volte in cui nel testo di Scotto si nomina il Liber Damnatus questo non è altri che il Necronomicon. Infine, fu il primo studioso ad avere accesso alla collezione privata Dei Brioschi, di Venezia, dove sono conservate alcune delle più importanti epistole delminiane, anche qui con evidenti riferimenti alla traduzione. Il vero svantaggio del lavoro bulgheroniano — pur filologicamente ineccepìbile — sta nella scarsità delle pubblicazioni seguite alle sue scoperte: sì deve anzi ritenere che il breve saggio dì otto pagine apparso nell'ultimo numero dei Cahiers Noirs sia il solo studio reso di pubblico dominio dopo oltre quindici anni di ricerche.

Certamente la concisione giocò un brutto tiro al saggista romano, ma uno ancora peggiore gliene preparò la sorte. È quasi certo che nella versione originale il suo testo fosse lungo quasi il doppio ma stretta nelle morse di esigenze editoriali pressanti la redazione tagliò o sunteggiò nella traduzione una parte non trascurabile di materiale. Il resto degli studi rimane ancora allo stadio di manoscritto o raccolta di appunti fra le carte dello scomparso Bulgheroni, il quale intanto è diventato a sua volta oggetto di studio.

Solo ora gli esecutori della sua proprietà letteraria hanno consegnato i manoscritti inediti alle Edizioni Atanòr di Roma, che cureranno entro l'anno un volume dedicato al più che singolare personaggio.

L'attendibilità di ricercatore del Bulgheroni è cosi confermata da Giorgio Manganelli, che lo conobbe poco prima della morte:

« Era un uomo schivo, assolutamente eccentrico in ogni abitudine; scriveva e leggeva schermando fino all'inverosimile lampadine e sorgenti di luce, sicché si può affermare che lo facesse al buio. Con gli uomini parlava molto poco, ma era prodigo di consigli verso gli animali, e specialmente i gatti randagi del suo quartiere la borgata di San Basilio.
Conosceva perfettamente il greco e il latino, e, fra le lìngue moderne, francese e tedesco li leggeva regolarmente. Era un filosofo autodidatta ma perfettamente preparato, un provetto bibliografo e un erudito conoscitore di storia delle tradizioni, specie per il verso che riguarda l'occulto e il magico.
Ha compiuto studi importantissimi di regionalistica, e mi auguro che presto i suoi manoscritti trovino un editore e un pubblico: interesserebbero almeno una mezza dozzina di scienze umane. Prima di morire, esprimeva un solo desiderio: conoscere l'arabo medievale abbastanza bene da leggere un grimoire scritto a Damasco neil'VIII secolo, e intitolato Al Azif. A patto, aggiungeva sorridendo, di rintracciarne una copia » (21).

(21)GIORGIO MANGANELLI, E un filosofo? No, uno stregone, in Tempo,
Milano, 10 febbraio 1973 pagg. 44-47. L'articolo ricordava anche, con partecipazione, la scomparsa di Bulgheroni avvenuta in circostanze tanto misteriose da renderle romanzesche. Il 4 febbraio 1964 il ricercatore solitario sparì dalla sua casa e non fu più visto da nessuno fino al 7 ottobre dellostesso anno, epoca in cui fu ritrovato morto — ma solo da pochi giorni — in una casa colonica abbandonata presso Tarquinia. Le cause del decesso non sono mai risultate chiare, anche se il certificato di morte depositato all'Anagrafe di Roma parla di trombosi ad effetto letale.



Ma se la traduzione è stata effettuata, come dai documenti esistenti appare certo, dove può trovarsi?

Risponde L.M. Lombardi Satrianì:

« L'opera magica di Delminio, come quella di altri cabalisti e pensatori eterodossi del Rinascimento, fu sottoposta a traversie secolari, e non bastò la fama di letterato e il rivestimento di pensiero neoplatonico a salvarla. Cosi, tra le menzogne, i camuffamenti crittografici, i finti o i veri pentimenti e le auto da fé e naturalmente l'inclemenza degli anni e le tergiversazioni delle seconde e terze mani non pochi di quei documenti scomparvero per sempre. Non è detto però che non riappaiano: nel caso di Deminio per tante opere perse ne restano molte integre, e molta corrispondenza si è salvata (non tutta decifrata, giova dirlo). Nel momento in cui i fili di queste conoscenze si riannoderanno, o un caso fortuito porterà alla luce nuove testimonianze, uomini ingegnosi sapranno approfittarne senz'altro, e allora vedremo forse la più famosa di queste rarità: il Libro volgare de' Morti, traduzione chiacchierata da quattro secoli del Necronomicon di Abdul Azha-red » (22).

(22) Intervista in Corriere della Sera, Milano, 16 agosto 1979.






Edited by IGNATZ DENNER - 11/1/2022, 13:13
 
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view post Posted on 4/4/2016, 21:58
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view post Posted on 7/4/2016, 11:56
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notizie da cercare negli statuti antichi ....







dal diaro di

Bertrand Raven

Edited by IGNATZ DENNER - 18/12/2016, 11:47
 
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view post Posted on 8/4/2016, 20:11
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IL GEO RADAR AVEVA EVIDENZIATO

UNA SCALA CHE SCENDEVA

NELLA CRIPTA ...












Edited by IGNATZ DENNER - 18/12/2016, 11:52
 
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view post Posted on 13/4/2016, 14:54
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Raven aveva decifrato le indicazioni su come trovare il passaggio :


Il Golem e il Ghylgul




אבא סקרא ריש בריוני דירושלים בר אחתיה דרבן יוחנן בן זכאי הוה, שלח ליה: תא בצינעא לגבאי. אתא, א"ל: עד אימת עבדיתו הכי, וקטליתו ליה לעלמא בכפנא? א"ל: מאי איעביד, דאי אמינא להו מידי קטלו לי! א"ל: חזי לי תקנתא לדידי דאיפוק, אפשר דהוי הצלה פורתא. א"ל: נקוט נפשך בקצירי, וליתי כולי עלמא ולישיילו בך, ואייתי מידי סריא ואגני גבך, ולימרו דנח נפשך, וליעיילו בך תלמידך ולא ליעול בך איניש אחרינא, דלא לרגשן בך דקליל את, דאינהו ידעי דחייא קליל ממיתא. עביד הכי, נכנס בו רבי אליעזר מצד אחד ורבי יהושע מצד אחר, כי מטו לפיתחא בעו למדקריה, אמר להו: יאמרו רבן דקרו! בעו למדחפיה, אמר להו: יאמרו רבן דחפו! פתחו ליה בבא, נפק. כי מטא להתם, אמר: שלמא עלך מלכא, שלמא עלך מלכא! א"ל: מיחייבת תרי קטלא, חדא, דלאו מלכא אנא וקא קרית לי מלכא! ותו, אי מלכא אנא, עד האידנא אמאי לא אתית לגבאי? א"ל: דקאמרת לאו מלכא אנא, איברא מלכא את, דאי לאו מלכא את לא מימסרא ירושלים בידך, דכתיב: והלבנון באדיר יפול, ואין אדיר אלא מלך, דכתי': והיה אדירו ממנו וגו', ואין לבנון אלא ביהמ"ק, שנאמר: ההר הטוב הזה והלבנון; ודקאמרת אי מלכא אנא אמאי לא קאתית לגבאי עד האידנא? בריוני דאית בן לא שבקינן

 
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view post Posted on 25/4/2016, 21:07
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RAVEN STAVA INDANGANDO ...



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CATALOGO SORBELLI ARCHIGINNASIO DI BOLOGNA






http://badigit.comune.bologna.it/FratiSorbelli/index.aspx



SALA GEMINA


http://memoriadibologna.comune.bologna.it/...-tom-1978-luogo



SALVARDI NATALE


COLLEZIONE SCELTA DEI MONUMENTI

https://books.google.it/books/about/Collez...kwC&redir_esc=y



LA PIETRA DI BOLOGNA



https://it.wikipedia.org/wiki/Pietra_di_Bologna



www.duepassinelmistero.com/PietradiBologna.htm

www.sselmi.net/aelia.html

www.simmetria.org/simmetrianew/cont...udio-lanzi.html

www.angolohermes.com/Approfondiment...lia_Laelia.html

https://books.google.it/books?id=RwIwAAAAM...0habens&f=false

https://books.google.it/books?id=_l5sPJenM...SALOMON&f=false


PIETRO LUIGI COCCHI : NUOVE OSSERVAZIONI


https://books.google.it/books?id=xoJaAAAAc...20LELIA&f=false

http://memoriadibologna.comune.bologna.it/...alta-2193-luogo

http://badigit.comune.bologna.it/books/sol...a/casaralta.pdf

www.google.it/webhp?sourceid=chrom...IA+DI+CASARALTA

www.aelialaeliacrispis.com/index.html

https://play.google.com/store/books/details?id=5xI7W9a_t0IC

ANTICHE MISURE ITALIANE

http://xoomer.virgilio.it/vannigor/unitadimisura.htm

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Il mistero della pietra

Alla scoperta di un antico segreto per le strade di Bologna di Sandro Samoggia

Collana di storie bolognesi – Costa editore





www.postfiera.org/archives/217

La pietra del mistero

Chi è particolarmente sensibile non vada oltre nella lettura, quello che vi racconto non sono, questa volta, mie sensazioni personali ma solo dati oggettivi particolarmente vividi e perturbabili, riscontrabili sulle fonti.

Come vi dicevo precedentemente a Bologna nel 1260 fu fondato un ordine di frati, una delle sue caratteristiche era quella di essere militare, in un certo senso affratellato ai Templari, per la difesa dell’ordine pubblico, potremmo dire oggi, allora dicevano per far da paciere fra le grandi famiglie in lite, sia che fossero della stessa città o meno.

Deriva il suo nome da una specifica lettura di una delle caratteristiche della Madonna, ovvero il suo essere gaudiosa nella pace, quindi l’ordine fu chiamato dei frati Gaudenti, che quindi non aveva nulla di goliardico, almeno all’inizio.
Altra peculiarità; i frati potevano vivere anche a casa propria, per quanto sposati, si obbligavano di sicuro a non praticare più rapporti sessuali.

L’ordine fu in breve riconosciuto anche dal pontefice, cosa che permise al Grande Maestro dell”Ordine di annoverare fra le proprie proprietà, ossia sedi dei frati che preferivano convivere, diversi luoghi.
Nella ns. città, o nei pressi della stessa, se ne annoverano almeno tre, il primario eremo di Ronzano, l’abbazia di Castel de’ Britti e il convento di Casaralta, sito dove attualmente risiede, a proposito di militare, una caserma.

Il convento era compreso nella proprietà dei Della Volta, già nel ‘500 si ha notizia di una lapide molto particolare, successivamente copiata per studiarla e quindi trascritta su di un’altra lapide nel ‘700; si legge che il padrone di casa la volle rifare perché la prima era quasi illeggibile però, purtroppo, più piccola, è per questo che nella lapide giunta fino a noi, furono tralasciate le ultime tre righe.

Per i puristi la copio in latino (TRANQUILLI !! più sotto la troverete anche in italiano) e, specifico, tutta intera, dato che sono appunto riuscito a trovare anche la parte mancante in quella conservata attualmente nel Museo Medievale di Bologna.

D. M.
AELIA LELIA CRISPIS
NEC VIR NEC MULIER NEC ANDROGYNA
NEC PUELLA NEC IUVENIS, NEC ANUS
NEC CASTA NEC MERETRIX NEC PUDICA
SED OMNIA
SUBLATA
NEQUE FAME NEQUE FERRO NEQUE VENENO
SED OMNIBUS
NEC COELO NEC AQUIS NEC TERRIS
SED UBIQUE IACET
LICIUS AGATHO PRISCIUS
NEC MARITUS NEC AMATOR NEC NECESSARIUS
NEQUE MOERENS NEQUE GAUDENS NEQUE FLENS
HANC
NEC MOLEM NEC PYRAMIDEM NEC SEPULCHRUM
SED OMNIA
SCIT ET NESCIT CUI PRODEST

HOC EST SEPULCHRUM INTUS CADAVER NON HABENS
HOC EST CADAVER SEPULCHRUM EXTRA NON HABENS
SED CADAVER IDEM EST SEPULCHRUM SIBI

DEI DEGLI INFERI
AELIA LELIA CRISPIS
NE’ UOMO NE’ DONNA NE’ ERMAFRODITE
NE’ FANCIULLA, NE’ GIOVANE, NE’ VECCHIO
NE’ CASTA, NE’ MERETRICE, NE’ PUDICA
MA TUTTE QUESTE COSE INSIEME
MORTA
NON PER FAME, NON PER FERRO, NON PER VELENO
MA PER TUTTO CIO’
NON IN CIELO, NON NELL’ACQUA, NON NELLA TERRA
MA OVUNQUE GIACE
LUCIUS AGATHO PRISCUS
NE’ MARITO, NE’ AMANTE, NE’ PARENTE
NON TRISTE, NON ALLEGRO E NON PIANGENTE
SA E NON SA PERCHE’ POSE QUESTO
(CHE NON E’) MAUSOLEO, NE’ PIRAMIDE, NE’ SEPOLCRO
MA TUTTO CIO’

QUESTO E’ UN SEPOLCRO CHE NON CONTIENE CADAVERE.
E’ UN CADAVERE NON CONTENUTO IN UN SEPOLCRO.
MA IL CADAVERE STESSO E’ A SE’ SEPOLCRO

Graficamente ho staccato le ultime tre righe perché si possa considerare il motivo che ha indotto gli artefici dell’attuale lapide, a trascurare di trascriverle.
Ho ben visto che il nome del supposto autore non è il medesimo, tra testo latino e traduzione LICIUS AGATHO PRISCIUS e LUCIUS AGATHO PRISCUS.
Non so se la ragione sia da imputare ad un errore o che altro, so solo che la mia fonte attuale recita come ho trascritto.

Una volta scoperto che cosa voglia dirci l’estensore del testo, almeno a me piacerebbe sapere il motivo per cui questa lapide fosse conservata, presso il convento, nonché casa, di almeno un Gran Maestro dell’Ordine.

Non vi sto a fare l’elenco dei personaggi di fama internazionale che da almeno un paio di secoli hanno provato a carpire il segreto della ‘Pietra di Bologna’, senza riuscirvi ma rimanendo essi molto più famosi del testo che non sono riusciti a decodificare.
A fronte di questo testo, l’indovinello della sfinge, scolora.

La versione più accreditata fra le interpretazioni è questa, che la lapide sia opera di una mente decisamente particolare, avente lo scopo far lambiccare il cervello al più alto numero possibile di persone.

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o letto con interesse il commento di marco del 9/12/2006 e mi sembra che la traduzione di cui è in possesso restituisca la lapide alla sua integrità, per quanto riguarda i nomi: infatti PRISCIUS non è documentato come appellativo latino, mentre PRISCUS lo è sufficientemente. La fonte di marco deve quindi avere avuto come riferimento la lapide originaria.
Per quanto riguarda i tre versi finali, è stato dimostrato dalla studiosa Maria Luisa Belelli che essi sono dell’autore greco del VI secolo Agatia lo Scolastico, tradotto in latino prima da Ausonio e poi dal Poliziano.
Devo dire che condivido con marco il dubbio che fossero ragioni di spazio ad aver fatto cadere questi tre versi dalla lapide conservata nel museo di Bologna e proprio lavorando su questo dubbio sono riuscito a trovare la soluzione dell’enigma.
Poichè però nella trascrizione di marco vi sono dei refusi di stampa (LICIUS per LUCIUS, CUI PRODEST per CUI POSUERIT) ritengo utile ripetere le notizie essenziali (che traggo dal sito http://angolohermes.interfree.it) prima di illustrare la chiave dell’enigma.

La pietra di Bologna

La lapide è stata scolpita nel XVI secolo su commissione di Achille Volta, Gran Maestro dell’Ordine dei Cavalieri Gaudenti, ed era apposta sulla parete della chiesa di Casaralta, sede dell’Ordine. Essa recitava:

D. M.
AELIA LAELIA CRISPIS
NEC VIR NEC MULIER NEC ANDROGYNA
NEC PUELLA NEC IUVENIS NEC ANUS
NEC CASTA NEC MERETRIX NEC PUDICA
SED OMNIA
SUBLATA
NEQUE FAME NEQUE FERRO NEQUE VENENO
SED OMNIBUS
NEC COELO NEC AQUIS NEC TERRIS
SED UBIQUE IACET.
LUCIUS AGATHO PRISCUS
NEC MARITUS NEC AMATOR NEC NECESSARIUS
NEQUE MOERENS NEQUE GAUDENS NEQUE FLENS
HANC
NEC MOLEM NEC PYRAMIDEM NEC SEPULCHRUM
SED OMNIA
SCIT ET NESCIT CUI POSUERIT

HAC EST SEPULCHRUM INTUS CADAVER NON HABENS
HOC EST CADAVER SEPULCHRUM EXTRA NON HABENS
SED CADAVER IDEM EST SEPULCHRUM SIBI

Cioè:

AGLI DEI MANI
AELIA LAELIA CRISPIS
NE’ UOMO NE’ DONNA NE’ ANDROGINA
NE’ FANCIULLA NE’ RAGAZZA NE’ VECCHIA
NE’ CASTA NE’ DI FACILI COSTUMI NE’ PUDICA
MA TUTTO CIO’
UCCISA
NE’ DALLA FAME NE’ DAL FERRO NE’ DAL VELENO
MA DA TUTTI QUESTI
NE’ IN CIELO NE’ NELL’ACQUE NE’ IN TERRA
MA OVUNQUE GIACE.
LUCIUS AGATHO PRISCUS
NE’ MARITO NE’ AMANTE NE’ PARENTE
NE’ TRISTE NE’ ALLEGRO NE’ PIANGENTE
QUESTA
NE’ MOLE NE’ PIRAMIDE NE’ SEPOLCRO
SA E NON SA A CHI LA DEDICHERA’.

QUESTO E’ UN SEPOLCRO CHE NON HA CADAVERE ALL’INTERNO
QUESTO E’ UN CADAVERE CHE NON HA SEPOLCRO ALL’ESTERNO
MA IL CADAVERE STESSO E’ A SE’ SEPOLCRO

Nel ‘600 il senatore Achille Volta, omonimo del suo antenato, fa ricopiare la lapide, divenuta illeggibile, informando, su una lapide più piccola, dell’avvenuta ricopiatura. E’ appunto la copia quella che si trova ora apposta al Museo Civico Medioevale di Bologna, mancante dei tre versi finali e con PRISCUS trasformato in PRISCIUS.
E su di essa tante persone si sono lambiccate nei secoli il cervello.

La chiave dell’enigma

L’idea che porta a sciogliere l’enigma della pietra di Bologna viene dall’osservazione che la lapide originariamente apposta nella chiesa dell’Ordine dei Cavalieri Gaudenti comprendeva i versi finali

HAC EST SEPULCHRUM INTUS CADAVER NON HABENS
HOC EST CADAVER SEPULCHRUM EXTRA NON HABENS
SED CADAVER IDEM EST SEPULCHRUM SIBI

ben noti agli umanisti.
E’ naturale chiedersi perchè il senatore Achille Volta, nel far ricopiare la lapide opera dell’antenato Gran Maestro, appartenente alle memorie storiche della famiglia, abbia fatto tralasciare questi versi. L’ipotesi che si può avanzare è che, ad un secolo dall’ideazione della pietra, si fosse perso il senso dell’iscrizione, ma, essendo in un’epoca in cui erano ancora in auge gli studi umanistici, fossero conosciuti i tre versi finali ed il loro autore.
I versi potrebbero quindi essere stati omessi per allontanare il sospetto che anche l’iscrizione a cui erano in coda fosse stata copiata.
Ma perché, un secolo prima, in un’epoca in cui gli studi umanistici erano ancora più fiorenti, Achille Volta, Gran Maestro dell’Ordine dei Cavalieri Gaudenti, aveva voluto aggiungere, ad un testo completamente originale nella storia dell’epigrafia, dei versi che tutte le persone di cultura conoscevano? Nasce il dubbio che essi non siano altro che la chiave di lettura dell’enigma al quale sono stati accodati, enigma che tratta comunque di una persona che è morta e di un’altra che “sa e non sa” a chi erigerà la sepoltura.

Analisi della chiave

I tre versi letti tutti insieme rappresentano essi stessi un enigma, ma ciascuno di essi, a se’ stante, ha un senso compiuto. E se ogni verso fosse un indizio per una delle soluzioni dell’enigma principale? La pietra sarebbe, per così dire, un “enigma a tre facce”, ognuna delle quali porta ad uno dei versi finali.
La struttura “a tre facce” è evidente nella maggior parte del testo: molte righe contengono infatti tre termini, mentre alcune contengono un solo termine, uguale, è da presumersi, per le tre facce.
L’ “armatura linguistica” che costringe a considerare tutte e tre le facce insieme è costituita dalle negazioni ripetute singolarmente (NEC…NEC…NEC; NEQUE…NEQUE…NEQUE) e dalle contapposizioni generalizzanti (SED OMNIA; SED OMNIBUS; SED UBIQUE).
Liberiamo allora l’iscrizione da quest’armatura. La pietra si presenta ora come un’esemplificazione, in chiave giocosa (come si addice al Gran Maestro dei Cavalieri Gaudenti), del tema:
“A volte la morte di una persona pone colui che si occupa della sepoltura in una situazione, a dire poco, ambigua”.
A sostegno della tesi vengono illustrati un dramma edificante, un dramma passionale ed un dramma esistenziale, per ognuno dei quali uno dei versi dell’epigramma serve da conclusione.

Il dramma edificante

Leggendo in verticale la prima colonna dell’iscrizione, scartando l’ “armatura linguistica”, si ha:

AELIA, VIR, PUELLA CASTA, SUBLATA FAME, COELO IACET.
LUCIUS, MARITUS, MOERENS, HANC MOLEM
SCIT ET NESCIT CUI POSUERIT.
HAC EST SEPULCHRUM INTUS CADAVER NON HABENS

Cioè:

AELIA, O UOMO (apostrofe al passante), FANCIULLA CASTA,
UCCISA DALLA FAME (dagli stenti), GIACE IN CIELO.
LUCIUS, MARITO, TRISTE, SA E NON SA QUESTA MOLE PER CHI
SARA’ ERETTA (perchè se Aelia giace in cielo non può trovarsi nella mole)
QUESTO E’ UN SEPOLCRO CHE NON HA CADAVERE ALL’INTERNO

Il dramma passionale

Leggendo in verticale la seconda colonna dell’iscrizione, ancora scartando l’ “armatura linguistica”, si ottiene:

LAELIA, MULIER, IUVENIS MERETRIX, SUBLATA FERRO, AQUIS IACET.
AGATHO, AMATOR, GAUDENS, HANC PYRAMIDEM
SCIT ET NESCIT CUI POSUERIT.
HOC EST CADAVER SEPULCHRUM EXTRA NON HABENS

Cioè:

LAELIA, O DONNA (apostrofe alla passante, più sensibile alle storie
passionali), RAGAZZA DI FACILI COSTUMI (meretrix non è qui la
professione, ma una qualifica del comportamento), UCCISA DAL FERRO
(dal pugnale), GIACE NELL’ACQUE (dopo il delitto il cadavere è stato
fatto sparire in un lago, o in un fiume, o in mare).
AGATHO, AMANTE (ma amator ha un significato più intensivo rispetto
ad amans, per cui direi meglio “che continua ad amarla”), ALLEGRO
(perchè ora Laelia non può più essere di altri), SA E NON SA QUESTA
PIRAMIDE PER CHI SARA’ ERETTA (perchè se la dedica a Laelia dovrà
ammettere il delitto e l’occultamento di cadavere).
QUESTO E ‘ UN CADAVERE CHE NON HA SEPOLCRO ALL’ESTERNO

Il dramma esistenziale

Leggendo in verticale la terza colonna dell’iscrizione, sempre scartando l’ “armatura linguistica”, si ha:

CRISPIS ANDROGYNA, ANUS PUDICA, SUBLATA VENENO, TERRIS IACET.
PRISCUS, NECESSARIUS, FLENS, HANC SEPULCHRUM
SCIT ET NESCIT CUI POSUERIT
SED CADAVER IDEM EST SEPULCHRUM SIBI

Cioè:

CRISPIS ANDROGINA, VECCHIA PUDICA( che quindi non ha mai
svelato a nessuno il suo segreto), UCCISA DAL VELENO (un suicidio
dopo anni di sofferta esistenza), GIACE PER TERRA.
PRISCUS, PARENTE, PIANGENTE, SA E NON SA QUESTO SEPOLCRO
PER CHI SARA’ ERETTO (egli pensa che sia per un’anziana parente,
mentre in effetti potrebbe dirsi che è per un anziano parente)
MA IL CADAVERE MEDESIMO E’ SEPOLCRO A SE STESSO
(perchè custodisce il segreto della sua natura).

Conclusione

Mi sembra che a questo punto la storia dell’enigma della pietra di Bologna possa degnamente riassumersi come segue:

ACHILLE SCRISSE LE PAROLE SUE
UNENDO I VERSI DI UN ANTICO VATE.

ACHILLE SCRISSE LE PAROLE ALTRUI
TOGLIENDO I VERSI DI UN ANTICO VATE.

ACHILLE LESSE I VERSI DI QUEL VATE
SVELANDO LE PAROLE CH’ALTRI SCRISSE.

Naturalmente dei tre distici il primo si riferisce ad Achille Volta, il Gran Maestro dell’Ordine dei Cavalieri Gaudenti, il secondo ad Achille Volta, il senatore suo discendente, il terzo ad Achille Valletrisco, l’autore di questo commento.
Ma se li leggiamo tutti insieme ho l’impressione che incapperemo in un nuovo enigma!
 
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è Ebraico .



zio bert

Edited by IGNATZ DENNER - 18/12/2016, 11:59
 
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elyàh leelyàh kerysfy


אֵלִיָּה לְאֵלִיָּה כְּרִשְׁפִי




zio bert

Edited by IGNATZ DENNER - 18/12/2016, 12:00
 
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